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Fiume: ricordare anche le vittime italiane (Voce del Popolo 05 mag)

di Ilaria Rocchi

Praticamente all'indomani dell'armistizio dell'8 settembre 1943, sottraendo all'Italia una parte del suo territorio, Hitler istituì – in­sieme con l'Alpenvorland, che inglobava Trento, Bolzano e Belluno – l'Operationszone Adriatisches Kustenland, detto anche Litorale adriatico o zona d'operazioni del Litorale adriatico, che comprende­va Udine, Gorizia, Lubiana, Trieste, Pola e Fiume. Anche se il mantenimento dei poteri pubblici, pre­fettizi, politici e di ordine pubblico stava ad assi­curare una formale continuità italiana, la regione si trovò di fatto sotto il controllo dei tedeschi, i quali cominciavano a guardare sempre più con benevo­lenza alle aspirazioni dei croati (ustascia), che che non nascondevano il desiderio di annettere Fiume, Zara e l'Istria allo Stato indipendente croato (NDH) creato da Ante Pavelić.

Soffermiamoci sul capoluogo quarnerino. Nel­l'ultimo periodo del conflitto la situazione a Fiume divenne sempre più complessa e drammatica. Agli inizi del 1944 avvenne il primo bombardamento ae­reo anglo-americano, al quale ne seguirono altri 27, che provocarono centinaia di morti e danneggiaro­no gran parte delle strutture portuali e industriali. Le recrudescenze del regime nazista – si vedano a esempio la deportazione degli ebrei e la distruzione della Sinagoga (che era rimasta fino ad allora intat­ta) e l'efferrato crimine del 30 aprile 1944 a Lipa, dove oltre 220 civili, donne, vecchi e bambini, fu­rono fucilati per rappresaglia – stavano consumando la popolazione, parimenti alle minacce che arrivava­no dall'alto. Alle porte della città stava avanzando l'esercito jugoslavo di Tito. I fiumani si ritrovarono così stretti in una morsa tra i tedeschi da una parte e le truppe jugoslave dall'altra parte, nonché una cit­tà sventrata dalle bombe. Anche se la disfatta nazi­sta e lo sgombero dei tedeschi erano ormai diventati una questione di ore, non fu affatto facile per le unità della IV Armata popolare jugoslava entrare a Fiu­me; alla fine, nella notte tra il 2 e il 3 maggio 1945, i tedeschi cominciarono la ritirata, dirigendosi verso Villa del Nevoso, e alle dieci del mattino del 3 mag­gio le prime colonne di partigiani incominciarono a scendere dal sobborgo di Drenova per insediarsi a Fiume. Senza attendere l'esito dei trattati di pace, procedettero subito con l'instaurazione del nuovo potere popolare, per il tramite di un "proprio" Comi­tato Popolare Cittadino. Nella situazione che via via si era venuta a creare e si stava sviluppando a Fiume un Comitato di Liberazione Nazionale "italiano", capeggiato da Antonio Luksich-Jamini, nonché un altro Comitato fiumano, di ispirazione autonomi­sta, non ebbero alcuna seria possibilità d'interven­to, come fu del resto vana l'attesa di molti fiumani di un (im)probabile sbarco alleato e il sogno (ana­cronistico) della (ri)costituzione di uno stato libero fiumano, un po' sul modello di quello che Riccardo Zanella aveva creato dopo la Prima guerra mondiale, all'indomani dell'impresa dannunziana e in seguito al Trattato di Rapallo (12 novembre 1920).

Ai fiumani non fu lasciato alcun margine d'azione e fu subito fatto capire quale sarebbe stato il desti­no (l'unico ammesso) della città. Già la mattina del 4 maggio 1945 si sparse la voce che nella notte si erano verificate irruzioni della poli­zia segreta jugoslava – l'OZNA – in mol­te case di privati cittadini. Furono uccisi esponenti del vecchio partito autonomi­sta, come Mario Blasich, Nevio Skull, Giuseppe Sincich; si persero le tracce del senatore Icilio Bacci (arrestato il 21 maggio 1945), mentre l'altro se­natore, Riccardo Gigante (arrestato il 4 maggio 1945), fu prelevato e condotto insieme ad altre persone a Castua per essere fucilato e truci­dato a colpi di baionetta.

Oltre ai due senatori del Regno, furono arrestati e uccisi a Fiume, a ostilità finite, Carlo Colussi (già podestà) e sua moglie Nerina Copetti in Colussi, Rodolfo Moncilli, Mario Blasich, Angelo Adam, sua moglie Ernesta Stefancich e sua figlia Zulema Adam, Nicolò Cattaro, panettiere di Abbazia, Lucia Vendramin, Giuseppe Sincich, Ne­vio Skull, il prof. Gino Sirola (ul­timo podestà di Fiume dopo l'8 settembre 1943 e riconfermato il 9 febbraio 1944 che, arrestato dai "titini" a Trieste il 3 maggio 1945, fu riportato a Fiume nella villa Rippa, trasformata in carcere, e poi scomparve), Margherita Sennis e sua figlia Gigliola, Angela Neugebaucr, crocerossina più volte deco­rata e tante altre ancora furono le vittime, gli arresti, le liquidazioni sommarie, gli scomparsi, le confische dei beni, le intimidazioni… Alla fine, circa l'85 per cento del­la popolazione abbandonò Fiume. Stando alle stime dell'Opera per l'Assistenza ai Profughi Giuliani e Dalmati, tra il 1946 e il 1947 più di 25.000 italiani lasciarono Fiume. Prima di quel periodo altri 6­7 mila italiani avevano già lascia­to la città.

Ora, sono trascorsi 65 anni dalla fine della Seconda guerra mondia­le e dalle esecuzioni sommarie del maggio '45. L'impresa partigiana, ossia l'effettiva liberazione di Fiu­me, quella dall'occupazione nazi­sta, si celebra puntualmente ogni anno il 3 maggio, come pure vengo­no giustamente condannate le atro­cità commesse sotto i regimi fasci­sta e nazista, gli orrori di una guerra provocata dalla politica e dalle mire scellerate di due spietati dittatori. Si ricordano le vittime, le sofferenze, anche attraverso le testimonian­ze dei sopravvissuti. E dev'essere così, anche come insegnamento da lasciare alle generazioni del futuro, affinché le brutture, le tragedie e si­mili episodi della nostra storia non abbiano più a ripetersi.

Ma affinché il messaggio da tramandare ai posteri sia com­pleto e veramente efficace nel­la prospettiva di una società mi­gliore, più giusta, la condanna dei responsabili di tali atrocità deve essere piena, completa, indiscus­sa, chiara, e riguardare tutti i crimini. E se è vero che il diritto in­ternazionale umanitario considera vittime di guerra tutte le persone che non hanno mai partecipato ai combattimenti o che hanno cessato di parteciparvi, non si possono, non si dovrebbero ignorare o di­menticare le vittime del maggio '45, quelle dei crimini commessi dai partigiani di Tito, rispettivamente quelle uccisioni compiute sotto l'egida del nuovo "potere del popolo". Tra i tanti, c'è pure il cor­po del senatore fiumano Riccardo Gigante, che si trova in una fossa comune, a poche centinaia di me­tri dalla cittadina di Castua, nel bosco della Loza. Il luogo è sta­to individuato anni fa nel corso di una ricerca storica congiunta della Società di Studi Fiumani con sede a Roma e l'Istituto Croato per la Storia di Zagabria, a cura di Amleto Ballarini e Mihael Sobolevski, e pubblicata in versione bilingue, italo-croata nel 2002, con il titolo "Le vittime di nazionalità italiana a Fiume e dintorni (1939-1947)", rispettivamente in croato "Žrtve talijanske nacionalnosti u Rijeci i okolici (1939.-1947.)". A onorare queste vittime fiumane, per lo più italiane, è, da undici anni a questa parte, la Società di Studi Fiumani. I rappresentanti dell'associazione tornano puntualmente nel capo­luogo quarnerino "per ricordare al mondo dell'esodo e alle autorità italiane e croate, che i loro pove­ri resti sono ancora in attesa di di­gnitosa e cristiana sepoltura". Alla Società, espressione "dell'anima fiumana esodata", si uniscono gli esponenti "dell'anima fiumana dei rimasti". Un modo più che giusto per sollecitare l'attenzione pubbli­ca (carente) – oltre che per commemorare i defunti -, su questa parte della vicenda fiumana; un modo più che opportuno per re­mare in direzione di una memo­ria da condividere senza rancore, astio, risentimento, per un doma­ni più sereno. Evitando così che il Giorno del Ricordo si trasfor­mi con il tempo (solo) in uno strumento di cui la parte italiana si servirà per rievocare le proprie ferite e i propri morti, rispettiva­mente che in occasione del 3 mag­gio le autorità di Fiume oggi croa­ta, continueranno a rimanere sorde e cieche di fronte ai crimini com­messi dalla parte all'epoca jugo­slava, snobbando il ricordo delle vittime italiane. Purtroppo anche quest'anno è andata così e finché si proseguirà su questa strada, anzi su strade parallele – a prescinde­re dalle tante mani tese -, non ci potrà essere veramente un'eredità civile e culturale – quella fiuma­na, italiana, croata, o di altra na­zionalità – di cui fare tesoro, per progettare e costruire un futuro da condividere.

 

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