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Esule e Rimasta ricordano Vergarolla (Arena di Pola 28 lug)

Alla fine della guerra da Visinada, dove eravamo stati sfollati a causa dei bombardamenti, ritor­nammo a Pola. Il nostro ritorno a casa all'inizio fu tranquillo. È stato bello rivedere il nostro mare, ritor­nare alla normalità, vedere dalla nostra finestra l'isoletta con il faro, andare in barca con mio fratello, andare in spiaggia. La mamma ri­cominciò il suo lavoro in manifattu­ra tabacchi. Ma tale serenità durò ben poco: nel luglio 1946 si sparse la notizia che i "Grandi", ossia le potenze che avevano vinto la guer­ra, avevano deciso, con il trattato di pace, di cedere l'Istria e quindi Pola alla Jugoslavia, e tutto ciò mise uno sgomento nell'intera popola­zione.

La popolazione cominciò a fare dimostrazioni di italianità, ma tutto fu inutile, nessuno riuscì mai a ca­pire il nostro dramma, quello che sarebbe successo nel futuro. La mia famiglia, in un certo senso, du­rante il periodo dello sfollamento in Istria aveva avuto l'idea di quale dominio avremmo dovuto subire; oggi, dopo molto tempo, è stato di­mostrato che avevamo ragione. Abbiamo visto, in questi ultimi anni, nella guerra in Bosnia, in Serbia, in Slovenia ed in Croazia, quale fratri­cidio sia avvenuto.
Mamma era disperata: «Cosa dobbiamo fare? Dove andiamo? Cosa faremo?» La nostra decisio­ne maturò quando successe l'ecci­dio di Vergarolla.

Mi ricordo che, durante la notte tra il 17 ed il 18 agosto, si posò sul­la persiana della camera dove si dormiva una civetta, che per tutta la notte non ci diede pace con quel­lo stridulo lugubre. Il giorno 18 ago­sto mamma aveva deciso di anda­re a Visinada per alcune faccende ed io l'accompagnai. Prendemmo l'autobus, ma prima di partire deci­se di lasciare mio fratello più picco­lo dalla nonna; mio fratello più grande disse che rimaneva in ca­sa, mia sorella più piccola era in collegio e mio fratello Vitaliano an­dò con mio zio.

Oggi è molto triste ricordare. La notte che passai in casa della si­gnora che ci ospitò a Visinada non riuscii a dormire, non fu possibile. Per tutta la notte mi sentii spingere da qualcuno e davanti agli occhi mi si presentò la morte; fu una notte terribile, ancora oggi che sono pas­sati oltre sessant'anni non riesco a dimenticarla, ma di questo partico­lare non dissi mai niente a mia mamma, solo a persone fidatissime. Infatti, qualcosa di tragico era accaduto: il giorno dopo collegai il sogno… no… non un sogno ma una realtà e capii cosa era successo.

Il giorno 18 agosto 1946, il giorno in cui eravamo andate a Visinada, vicino a noi, distante circa un chilo­metro, si svolgeva una gara di nuo­to. Era domenica, la città era sem­pre occupata dagli alleati e per l'oc­casione centinaia di persone erano convenute sulla spiaggia di Vergarolla, nella cui pineta giacevano accatastate 28 mine dei tedeschi e dei francesi, prive di detonatori.

Era una manifestazione d'italia­nità, ma qualcuno causò un eccidio facendo saltare le mine: fu una tra­gedia in cui morirono circa 70 per­sone e, tra queste, mio fratello Vi­taliano di 14 anni.

Il destino aveva voluto che io e mamma fossimo andate a Visinada, altrimenti anche noi avremmo subito la stessa sorte, perché la nostra intenzione era proprio quel­la di andar a vedere la gara di nuo­to.

Al mattino presto del 19 agosto, ci telefonarono da Pola perché di­cevano che mio fratello era ferito, invece era morto. Di corsa andam­mo a Pola.

A causa dello scoppio delle mine i corpi erano irriconoscibili; mio zio solamente attraverso un cintolino del costume confezionato da mam­ma poté riconoscere il corpo di mio fratello.

Ci recammo davanti alla camera mortuaria dell'ospedale civile, dove furono allineate all'incirca 70 bare, bare di legno, confezionate veloce­mente; inoltre c'erano delle piccole cassettine da morto senza nome: erano resti umani. Non si può de­scrivere le scene dei parenti, l'odo­re dei disinfettanti, del liquido che usciva, dalle bare fatte in fretta e furia.
Sempre in fretta e furia furono allestiti i funerali, le bare furono ca­ricate sui camion degli alleati, tutta la popolazione partecipò alle ese­quie delle vittime. Mio fratello lo portarono al Cimitero della Marina, dove fu sepolto con quella cassa provvisoria.

Per mamma fu una vera tragedia che la perseguitò per tutta la vita: non si diede mai pace.
Allora collegai la notte tremenda che avevo vissuto a Visinada: qual­cosa di soprannaturale mi aveva spinto lontano da mamma perché mio fratello era attaccatissimo a lei.

Wanda Muggia (Esule)
 

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Avevo dodici anni quando scop­piarono le mine a Pola, sulla spiag­gia cittadina di Vergarolla. Era una bella e calda giornata estiva. Era il 18 agosto 1946, il giorno delle gare di nuoto e di vela della polisportiva Pietas Julia. Tutto era pronto. Era un evento molto atteso dalla città che, dopo gli anni difficili della guerra e seppur con l'ansia per una sorte ancora non scritta tra Italia e Jugoslavia, aveva voglia di ri­cominciare. Dal porto, un battello faceva la spola con la punta di Vergarolla. Ad assistere alle gare, inte­re famiglie, genitori, figli, adulti, bambini. Centinaia di persone. Pola era là, quella domenica.

In famiglia si discuteva se anda­re o no. Non ci sentivamo ancora sicuri. Gli slavi avevano occupato Pola nei primi giorni di maggio e solo con l'accordo di Belgrado del 9 giugno l'amministrazione della città passò nelle mani degli Alleati. Ci aspettavamo che da un momen­to all'altro i titini, accampati nei din­torni, tornassero. Alla fine, deci­demmo di andare. Facemmo il ba­gno, pranzando, tutti insieme, all'ombra della pineta, spostata in alto rispetto alla spiaggia. Una giornata serena, bella, finalmente normale. Dopo pranzo, rimasti senz'acqua, mi alzai per andare a prenderla: «Vado io», dissi. Così mi incam­minai verso la fontanella che si trovava dall'altro lato della pineta.

Avevo tutta la pelle del viso che mi tirava per il sale del mare. Mi abbassai allora per sciacquarmi la faccia e rinfre­scarmi. All'improvviso un boato enorme. Avevo la testa sotto l'acqua, non vidi cosa stava accadendo a qualche decina di metri da me. La luce del sole si oscurò per la polvere e la sabbia sollevata dall'esplosione. Sembra­va un'eclissi. Era buio come la not­te. I detriti erano ovunque. Ancora non riuscivo a rendermi conto di quello che era successo. Subito pensai ai bombardamenti. Ma la guerra era finita. Forse gli slavi, non potevo immaginare.
Quando alzai gli occhi rimasi pie­trificata, immersa nella paura. Scappavano tutti. Uomini e donne con i bambini in braccio. Ricordo le grida. E, non so, forse furono pro­prio le urla a sbloccarmi.

Senza pensare, mi ritrovai a cor­rere verso la pineta, dai miei geni­tori. Ricordo che una donna tentò di fermarmi. «Dove vai, non andare lì bambina, scoppierà tutto», mi disse. Intorno a me solo panico, persone impazzite che scappava­no da qualcosa. Rischiai di essere travolta più di una volta. Era come risalire la corrente di un fiume. Im­possibile. Allora, insieme ad altre persone mi riparai per un po' den­tro alcune piccole casermette ab­bandonate. Vergarolla era stata adibita a zona militare durante la guerra. Vidi mio padre ansimante che mi cercava. «Nella, sei qui gra­zie a Dio», mi disse. «E dove dove­vo essere?», gli risposi quasi per giustificarmi. Continuavo a non ca­pire, a non rendermi conto. Erava­mo abituati alle esplosioni. Pola durante il conflitto aveva subito molti bombardamenti. Ogni tanto si sentivano ancora bombe o mine fatte esplodere dagli artificieri. «Mamma dov'è? Ma che è succes­so?», chiesi impaurita a mio padre, che senza dirmi niente mi strinse forte la mano portandomi fuori dal­la casermetta. Quando arrivammo alla pineta, capii. Quello che mi si parava davanti agli occhi era un in­ferno. Non potrò mai dimenticarlo.

Una donna disperata, accasciata a terra, piangeva, piangeva senza sosta. Gridava aiuto. Aiuto per i due figli. Uno era immobile, morto. L'altro ancora si muoveva. Mio pa­dre lo prese in braccio e lo mise all'ombra. Altro non poteva fare.
C'era sangue ovunque. Resti uma­ni seminati dappertutto, finanche sugli alberi. Ricordo ancora i bran­delli di carne, poltiglia rossa. Gam­be galleggianti in acqua. Una sce­na terribile! La gente urlava: «Via via! La pineta è minata. Salta tutto qui!». Trovammo mamma sotto un pino. Era completamente ricoperta di sabbia e polvere. Mi abbracciò forte e insieme stretti l'uno all'altro andammo verso il mare. L'acqua aveva assunto un color rubino. In superficie galleggiavano pezzi umani. Orrendo!

A Vergarolla, quella bella e male­detta domenica, morirono un centi­naio di persone e altrettante rima­sero ferite. Erano tutti civili. Su quella spiaggia, accatastate, si trovavano ventotto mine di profon­dità, residuato bellico. Erano state disattivate, non c'era pericolo. Sta­vano lì da tanto tempo ormai. I polesani ci avevano fatto l'abitudine. Erano entrate a far parte del pae­saggio. Un brutto ricordo della guerra. Quel giorno la spiaggia era affollata. E molti, per difendersi dal sole, si erano riparati all'ombra del­le mine, altri addirittura avevano lì posato vivande e bibite. Esplosero. In tutto nove tonnellate di tritolo. Qualcuno le aveva innescate, tra­sformando quella bella domenica nella più grossa strage della storia italiana. Ambulanze a sirene spie­gate, carretti trainati da cavalli, macchine, tutti i mezzi furono utiliz­zati per trasportare i feriti dalla spiaggia all'ospedale. Tutta la città si strinse per dare una mano.

Ci furono anche casi estremi di eroismo come quello del medico chirurgo Giuseppe Micheletti, elet­to a simbolo della strage di Vergarolla. Era di turno quella domenica. I figli, Carlo e Renzo, di nove e set­te anni, erano andati alle gare con gli zii e una cuginetta. Quando giunse la notizia dello scoppio delle mine, Micheletti decise di restare al suo posto. Rimase a operare inin­terrottamente per ore con l'an­goscia nel cuore, sperando che i fi­gli e i parenti fossero scampati alla tragedia. Il terrore si materializzò quando riconobbe tra i cadaveri i corpi di un figlio, della sorella, del cognato e della nipotina. L'altro fi­glio era scomparso nel nulla.

Per tre giorni, mi sono svegliata con la terra in bocca. Mi usciva dal­le orecchie, dal naso. La schiena, le gambe piene di graffi. Il mio cor­po era ricoperto da lividi. Non so neanche come me li ero fatti. Se ci penso ancora oggi, mi vengono i brividi. Sono una miracolata. Per andare a prendere l'acqua, passai proprio di fronte al punto in cui poi esplosero le mine. Questione di pochi secondi e avrei fatto la fine di tutta quella po­vera gente.

L'indomani i funerali. Tutta la città partecipò in un silenzio irrea­le. Dignitosa, stretta nel dolore che non era solo dei parenti delle vittime ma di una comunità intera. Il giornale cittadi­no, "L'Arena di Pola", titolò a tut­ta pagina, lo ri­cordo ancora: «Pola è in lutto». In Chiesa, mon­signor Radossi disse nella fun­zione funebre: «Non  scendo nell'esame delle cause prossime che hanno determinato un simile macello. Rimetto tutto al giudizio di Dio al quale nessuno potrà sfuggi­re nell'applicazione della sua ine­sorabile giustizia. La nostra opera è ben piccola cosa perché i morti sono morti e i dolori sono piaghe che mai più potranno essere ci­catrizzate. Questa è la tremenda verità». Le bare erano tante, tutte in fila coperte dal tricolore. Ventuno le salme non identificate. In quattro casse solo brandelli umani.

Quando poi arrivarono gli slavi, di quanto successo a Vergarolla non se ne parlò più. Tanto meno si parlò delle responsabilità. Chi fu a innescare quelle mine? Oggi a più di sessant'anni di distanza sappia­mo grazie ai documenti ritrovati nell'archivio britannico del National Archives di Kew Gardens che non fu un incidente, ma un attentato organizzato dall'OZNA, la polizia segreta di Tito. Noi polesani, però, non abbiamo dovuto attendere più di mezzo secolo per sapere chi c'era dietro quella terribile strage. Lo abbiamo sempre saputo. Si è trattato di un sabotaggio organizza­to non a caso nel giorno in cui tutta la città si era riversata sulla spiag­gia per assistere alle gare.

L'intento è evidente: terrorizzarci per mandarci tutti via, tutti i polesani italiani. Così, anche noi, nell'in­verno del 1947, lasciammo Pola, portandoci quel poco che poteva­mo. Andammo a Firenze, da alcuni parenti. Ma restammo poco. Mio padre moriva di nostalgia. Non riu­sciva ad abituarsi all'idea di vivere lontano dalla sua terra. Così deci­demmo di tornare a casa nostra, a Pola. Non ci volle molto tempo per capire che avevamo commesso un grave errore. La nostra si era tra­sformata in una città fantasma. Pola, nel frattempo ribattezzata Pula, si era letteralmente svuotata. Su trentamila polesani, partirono circa 28mila persone.

Anche noi, tornando, ci eravamo di colpo trasformati. Nella Jugosla­via di Tito, non eravamo più italiani, ma italiani fascisti. Per gli slavi tutti gli italiani erano fascisti. Optammo due volte per la cittadinanza italia­na, per tentare di partire nuova­mente. Ma questa volta le autorità slave non ci lasciarono andare e così fummo costretti a rimanere.

Io non ho mai raccontato la mia storia: prima da esule, poi da rima­sta. A nessuno mai. Neanche alle mie amiche di scuola più care. È un segreto che ho tenuto nascosto, stretto con me fino a quattro-cin­que anni fa. Nella nuova Pola, mi trovavo male. Tutto all'improvviso era cambiato. Noi italiani eravamo diventati una piccola minoranza. Era arrivata gente da tutte le pro­vince più remote della Jugoslavia. La nostra lingua era diventata di colpo straniera e non si poteva più parlare. C'era paura a farlo. «Parla croato!», mi dicevano con disprez­zo nei negozi, ogni volta che senti­vano che in croato riuscivo solo a balbettare qualche parola. Quella lingua non la parlo bene neanche oggi. Non ho voluto. Per noi, è sta­ta una violenza. Una delle tante violenze psicologiche che abbiamo dovuto subire. Piccole discrimi­nazioni quotidiane. Solo da poco, da circa una decina di anni, la co­munità degli italiani di Pola ha ini­ziato a commemorare la strage di Vergarolla. Loro no, i croati probabilmente non sanno neanche chi fu Giuseppe Micheletti.

Nella Smilovich ( Rimasta )

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