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Don Bonifacio: intervista a don Luka Pranjic (Vita Nuova 02 nov)

Siamo seduti sulla terrazza della Comunità degli Italiani di Grisignana a bere un caffè, di fronte a noi s’apre la valle del Quieto, nella foschia e nella polvere della campagna; dalla parte opposta, arroccata sul suo colle, c’è Montona. «Il paesaggio più bello del mondo», sostiene don Luka Pranjic. È un prete giovane, ha 26 anni; dopo il liceo cattolico a Pisino ed il seminario a Fiume, è stato ordinato un anno e mezzo fa e questo è il suo primo incarico: parroco di Grisignana, Castagna e Crassiza; il suo successore s’era spento all’età di ottantaquattro anni. Tre parrocchie queste che, insieme, non fanno cinquecento anime: Castagna ne conta una quarantina appena.

A don Luka piacerebbe fosse possibile ritrovare il corpo di don Francesco Bonifacio, assassinato proprio su queste strade polverose. La sua vita si svolgeva tutta qui, alla luce del sole, nel triangolo tra Villa Gardossi, Grisignana e Tribano, ma la sua morte è tuttora in parte avvolta nel mistero. Per domani, sabato 4 ottobre, è stato organizzato un pullman e don Luka verrà a San Giusto con gran parte dei parrocchiani. L’evento è seguito, se n’è parlato anche qui. Si spera anche per don Miro Bulesic, pareva fatta, «ma ha vinto Trieste», scherza don Luka.

L’Istria ha mantenuto la sua identità cattolica, racconta il prete con soddisfazione: circa il quaranta per cento delle persone frequenta la parrocchia, e si tratta della generazione di mezzo, dei quaranta-cinquantenni. Quanto ai giovani, è chiaro che, in realtà così piccole, siano pochi pure loro e sia difficile organizzarne la pastorale. Quest’anno sono quattro i ragazzi che si stanno preparando alla prima Comunione, quello passato però erano quattordici. Le vocazioni, neanche in Croazia sono moltissime; ma a differenza che in passato, non sono più i paesi e le campagne a sfornare sacerdoti, ma le grandi città.

La comunità l’ha accolto con tanta disponibilità e gioia, la gente è buona e lui si trova molto bene, pur in una realtà tanto angusta. Confessa che non gli è congeniale tenere il catechismo, affrontare discorsi spirituali in italiano; benché nato a Parenzo, i suoi genitori vengono dalla Bosnia e la sua lingua materna è il croato. Non nasconde nemmeno un certo orgoglio nazionale: «In fin dei conti, la Chiesa è sempre “nazionalista”, nel senso che è vicina al popolo». Ma, in quanto servo di Dio, è bene che parli anche la lingua del gregge che gli è stato affidato, che è in buona parte ancora italiano.

Lui predica per un trenta per cento circa in italiano e per il resto in croato; non ci sono parametri fissi, sta alla sensibilità del sacerdote. Tuttavia, gli riesce difficile soprattutto comprendere il dialetto istro-veneto, che è la lingua comunemente usata. Preti italiani in Istria, del resto, non ne nascono. Gli chiedo quali siano i rapporti con l’Italia. Mi risponde che quasi tutti hanno parenti a Trieste, in paese, e molti ci lavorano, i contatti perciò sono costanti; la nostra città continua ad essere il maggiore polo economico d’attrazione.

Per San Modesto, patrono di Grisignana, vengono dall’Italia decine di esuli a gremire la chiesa. Monsignor Ravignani, d’altro canto, ha presenziato alle celebrazioni per monsignor Dobrila e alla cosiddetta festa della riunificazione della Chiesa istriana, cioè lo smembramento della diocesi di Trieste-Capodistria in favore di quella di Parenzo-Pola, nel dopoguerra.

Mi vuole mostrare l’ufficio parrocchiale, che è inserito nell’intrico di vicoli della cittadina. È la classica casa di un prete di campagna, come ce la immaginiamo, come s’è visto in Don Camillo e letto in Bernanos: il portone pesante di legno che dà su un cortiletto ombroso, smangiato dai rampicanti; la scala in pietra che, stretta e sbilenca, sale ai piani. La libreria con vecchi volumi. La cucina spartana, il caminetto odoroso ornato da una tendina bianca e rossa, il grosso tavolo con la tovaglia di tela cerata, bottiglie di vino e liquori e in giro, sulle pareti segnate da crepe profonde, pie rappresentazioni ed oleografie ingiallite.

Don Luka sta rimettendo a posto alcune stanze, ha rifatto lui stesso il parquet, ha stuccato e passato qualche mano di bianco.

Nel tragitto incontriamo la siora Maria Reganzin, malferma sulle gambe, sdentata, un po’ sorda. Don Luka la saluta, lei risponde affettuosa sciorinando tutti i suoi malanni, chiedendo una Messa, cercherà i soldi; il sacerdote dice che non ce n’è bisogno, lei insiste per pagare, finché può, vuol far del bene. Per tutta la vita ha fatto la perpetua, per questa dedizione alla Chiesa ne ha passate, vien fuori. Per molti anni dopo la guerra, quando la vedevano che spazzava il sagrato, le negavano anche il saluto.

Nel flusso incontrollato dei ricordi racconta del marito che si nascondeva per non esser precettato per il lavoro volontario, di lei che andava in giro pei villaggi a rammendare scarpe, delle figlie, la mezzana è buonissima, un pezzo di pane ma, ahimé, non prega, non crede, nonostante lei l’abbia educata così. In tutta la vita avrà perso quattro Messe, ma non perché voleva, è divorata dall’herpes. Don Luka la ascolta, le parla in italiano, in croato quando viene sopraffatto dal dialetto. «Questa, dovresti intervistare, che è sempre stata qui…».

Glielo chiedo, ma è ritrosa: «Cossa la vol che ghe conto, de la mia vita? Oh, ma la xè ’ssai longa, no ghe bastassi un giorno. Longa come la fame…». Comunque, deve andare a riposare, e perciò non se ne fa niente. La signora Maria Reganzin se ne va via tra i vicoli curva sul bastone, guardata con curiosità, come un’anticaglia più pittoresca delle altre, dalla ressa di turisti tedeschi e svizzeri, così estranei e così ignari. Non so se avesse conosciuto un giovane prete piranese, scomparso in un giorno di settembre del 1946.

Anrdrea Dessardo

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