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Dalmati: reciproca conoscenza e condivisione del futuro (Voce del Popolo 01 ott)

 

 

EDITORIALE DI SILVIO FORZA

Al 55-esimo Raduno dei Dalmati, svoltosi lo scorso fine settimana a Bellaria, a due passi da Rimini, si è tenuto un dibattito sul futuro della cultura dalmata sulle due sponde dell’Adriatico. Quale, dunque, il futuro della cultura dalmata? In sede teorica la risposta sarebbe anche abbastanza semplice e scontata: predisporre, su ambo i versanti adriatici, politiche culturali e strategie d’insegnamento scolastico con le quali “pensare”, far conoscere e promuovere uno spazio culturale – quello dalmata –, in cui ci dovrebbe essere posto sia per la cultura croata, sia per quella italiana. Dovrebbe essere questa la strada maestra lungo la quale attraversare un territorio in cui le popolazioni croate ed italiane si sono incontrate, confrontate, scontrare, ma specialmente mescolate, dando vita ad un ambiente umano culturale d’inusitata ricchezza. Basta saperlo e volerlo riconoscere. Ma è proprio qui che iniziano i problemi. Ed è per questo che la domanda alla risposta “quale il futuro della cultura dalmata?”, semplice in sede di pensiero, diventa tremendamente ingarbugliata nella realtà dei fatti.
I dalmati italiani conoscono poco e male le ragioni dei dalmati croati. I dalmati croati le ragioni dei dalmati italiani le conoscono ancor meno. E senza reciproca conoscenza, non ci può essere vicendevole rispetto né accomunante cultura. Un danno tremendo, se si pensa che se si vuole realmente programmare meglio, propositivamente e con autentica tensione condivisa, il proprio futuro comune, allora bisogna conoscere davvero e rispettare le ragioni e i dolori degli altri. E si deve mettere definitivamente da parte il peggio del proprio passato e di quello altrui. Sono questi gli imperativi dai quali non può prescindere l’armonia – che in ultima analisi vuol dire precondizione per una vita normale –, tra le popolazioni dalmate che, seppur oggi distinte in due e più stati, da secoli si sono ritrovate a vivere in stretta prossimità, su di un territorio che rappresenta per le varie etnie presenti comune sito d’insediamento storico.
Gli italiani di Dalmazia sanno poco dei loro conterranei croati perché non hanno fatto in tempo a conoscerli nel periodo postbellico, quello che, nonostante tutte le storpiature ideologiche, aveva garantito diritti civili di seppur minime pari opportunità a prescindere dall’appartenenza nazionale. Ciò per dire che i dalmati italiani non hanno mai vissuto da “cittadini alla pari” con i loro conterranei croati: li hanno conosciuti come “mlikarice”, serve, braccianti, come qualcosa di estraneo alla civiltà urbana e che ancora oggi usano a volte identificare con il sintagma di “barbarie slava”. Poi li hanno percepiti come occupatori, usurpatori, infoibatori, comunisti, nazionalisti, aggettivi ormai consolidati nel repertorio pregiudiziale dalmato-italiano. Incomprensibilmente simpatizzanti di movimenti politici italiani eredi di quel fascismo che di fatto li aveva trasformati in esuli, i dalmati italiani, anche oggi, e con anacronistica foga, quando rivendicano le loro sacrosante ragioni, danno all’altro tragicomicamente del comunista, scordandosi che il male non giungeva tanto dal comunismo quanto dal nazionalismo slavo. Un nazionalismo preesistente che il fascismo ha fatto amplificare a dismisura e che il comunismo, fatto di cieca fedeltà all’ideologia, ha disgraziatamente rimodellato – come se il nazionalismo di se stesso non fosse bastato –, con le pratiche violente tipiche di quel regime.

 

«Debiti culturali»

Purtroppo, anche quando vogliono avvicinarsi in modo costruttivo al mondo dalmato croato, i dalmati italiani ricorrono a categorie che sulla sponda opposta non fanno presa. Lo fanno quando parlano di autonomismo dalmato, quando parlano di nazione dalmata: ed è paradossale che lo facciano sacrificando parte della loro italianità sull’altare di una “dalmaticità” che credono condivisa nella Dalmazia odierna e che tale invece non è. La Dalmazia di oggi, loro malgrado, è il luogo in cui, anche visivamente, con le scacchiere sulle facciate delle case, è maggiormente sentita la voglia di Croazia, il luogo in cui dopo il nazionalismo antiserbo arriva subito il nazionalismo antiitaliano, in luogo in cui la strada del regionalismo, seppur imboccata, si è rivelata off limits. Ma anche in Istria, dove i regionalisti hanno raggiunto oltre il 70 p.c. dei consensi, si è potuto fare ben poco. Figuriamoci a Zara. La Zara di oggi.
Da parte loro, i croati della Dalmazia i loro conterranei italiani li conoscono quasi per niente: li ridicolizzano come “taljanci”, si appropriano dei personaggi italiani della cultura dalmata, sono convinti di una loro specificità intercroata e irripetibile: quando dicono “ponistra” per finestra e “marangun” per falegname, credono di parlare un dialetto “dalmatinski” senza rendersi conto di storpiare parole italiane, senza rendersi conto che quegli oggetti vengono indicati con parole italiane storpiate perché il loro primo contatto con quegli oggetti è avvenuto in ambiente linguistico italiano, non croato. Ma questo debito culturale non preoccupa nessuno. A proposito della presenza italiana in Dalmazia, gran parte dei croati locali vive di certezze assolute: prima c’era stata quella che senza ombra di dubbio viene percepita come l’occupazione di Venezia (e si immaginano un Zara e una Spalato piene di croati cacciati dai veneziani sbarcati dalle galee), poi è arrivata un’altra occupazione con i fascisti.

 

Conoscere e condividere

Questo è tutto quello che sanno sulla presenza italiana in Dalmazia. Amen. Queste cose le hanno imparate a scuola, le hanno insegnate per sessant’anni e continuano candidamente a farlo, i telegiornali le confermano in ogni occasione possibile e sembra che nessuno avverta l’assenza di termini di confronto per capire tutte le contraddizioni di una terra così preziosa e particolare come la Dalmazia. Nessuno pare rendersi che per occupare qualcuno ci deve essere anche qualcuno da occupare. I pochi dalmati croati che sanno quanto la presenza italiana in Dalmazia sia legittima e incontestabile, o la contestano ancor più per portare a termine quanto prima il processo di croatizzazione totale, o se ne stanno tranquilli, da parte, bisbigliando e condividendo con gli italiani e con onestà il loro disagio. Ma le masse dalmate, di recente insediamento, sanno poco e male.
In conclusione, torniamo al punto di partenza. Senza conoscenza reciproca, ben che vada, non c’è vera concordia. C’è, eventualmente, sudata tolleranza, (quella avvertita spesso dagli esuli dalmati quando tornano a casa), c’è un tacito accordo per il quale certe cose è meglio non dirle onde evitare la caduta libera di logoranti accuse e contraccuse per gli sgarbi reciprocamente subiti. Eppure i fatti devono essere raccontati, specie quelli che servono a gettare un nuova luce su alcuni equivoci della storia. Eppure, senza guardarsi dentro l’un all’altro, senza la reciproca conoscenza, non ci può essere condivisione del futuro. Conoscere non sempre vuol dire condividere, vuol in primo luogo saper ascoltare con attenzione per sentire le ragioni dell’altro, per cogliere e cercare di comprendere i suoi punti di vista. E, infatti, la conoscenza non può prescindere da una sincera volontà di capire.

 

Un’interpretazione storica condivisibile

In tutta onestà, ai vecchi dalmati croati che in prima persona hanno subito le angherie fasciste non bisogna chiedere di capire le attuali necessità di conoscenza reciproca. In tutta onestà, ai dalmati italiani, minacciati in prima persona nella loro stessa incolumità fisica, che costretti all’esodo hanno abbandonato le loro case, le loro tombe, i loro affetti, che hanno subito l’umiliazione dei campi profughi, non bisogna chiedere di comprendere le attuali necessità di riconciliazione. Tuttavia, il dolore dei primi, paradigmatico di regimi e approcci interculturali sbagliati, e il dolore dei secondi, paradigmatico di tutta una folta generazione di dalmati italiani per il quali il destino (fatto anche di altrui malafede) ha riservato la rottura definitiva del cordone ombelicale che lega ognuno di noi alla propria terra natale, devono essere un monito severo.
Per tutti gli altri, quelli che vogliono il futuro senza traumi riteniamo che il sentiero giusto, quello che arriva anche alle più lontane periferie dello spirito, debba essere quello tracciato dalla conoscenza, dalla cultura. I tedeschi e i francesi frontalieri sono stati capaci di predisporre manuali scolastici comuni in cui hanno tentato di insegnare ai giovani un’interpretazione storica condivisibile. Quella manca a questi nostri territori e che potrebbe diventare una sana rivendicazione nei confronti dei nostri Governi.

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