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Dal Giappone all’Istria per capire il confine (Il Piccolo 01 ott)

Quando nel 2006 da Yokohama è arrivato a Trieste per studiare le peculiarità di questa terra di confine l’hanno subito redarguito: «Se vuoi capire questa realtà non devi solo studiarne la storia. Devi anche sapere come si fa il miele». Come a voler dire: per conoscere questo territorio devi entrarci dentro. Lungi dal farsi intimidire, lui ha raccolto la sfida e dopo più di quattro anni trascorsi tra gite oltreconfine e polverose biblioteche il giapponese Tetsutada Suzuki, dottorando al Tokyo Institute of Technology, ha concluso la sua ricerca e torna nel Sol Levante a scrivere la sua tesi.

Ha imparato come si fa il miele, ma non solo. Sotto la guida del Circolo Istria, che pubblicherà la tesi di Suzuki in italiano, ha percorso il triangolo istriano in lungo e in largo, si è innamorato del Friulano e delle palacinke, ha letto Slataper, Tomizza, Apih e ha cambiato la sua idea su Trieste più e più volte. «Quando sono arrivato dal Giappone pensavo a Trieste come a una città che guarda al futuro – racconta Suzuki, ch ha tracciato un bilancio della sua esperienza nel corso di un affollatissimo incontro organizzato dal Circolo Istria alla Casa della musica -, invece venendo qui mi sono reso conto che a Trieste il passato non è passato. I primi luoghi che mi hanno consigliato di visitare sono stati la Risiera di San Sabba, la foiba di Basovizza e il campo profughi di Padriciano. La credevo una città aperta: il confine, dopo l’ingresso della Slovenia nell’Ue, non esiste più. E invece è un labirinto: la frontiera è aperta, ma non c’è via d’uscita, perché il legame con il passato è ancora controverso. Pen
savo anche che il confine fosse una linea, invece ho scoperto che è una zona estesa».

Per un giapponese anche l’idea di confine “artificiale”, che si stabilisce, si sposta, si distrugge, è difficile da concepire: «Il Giappone ha un solo confine – commenta Suzuki – quello naturale tracciato dal mare. E i giapponesi sono un popolo piuttosto omogeneo, i miei avi sono tutti di origine giapponese, mentre qui a Trieste spesso le famiglie sono un mix etnico e linguistico: una caratteristica, quella della diversità, da valorizzare».

Come fanno i membri del Gruppo 85 e del Circolo Istria, che Suzuki ha avuto modo di conoscere molto bene e di cui è diventato socio onorario. «Ci sono tre modi di rapportarsi a un confine: dividendosi in blocchi nazionali contrapposti oppure creando un collegamento istituzionale internazionale, come nel caso del concerto di Muti. Ma si tratta ancora di un rapporto instabile. La terza via è quella che Tomizza definì come “catena transfrontaliera delle minoranze”, che parte da un’idea: noi e voi siamo indivisibili, siamo italiani ma anche sloveni e croati. Una relazione circolare auspicata dagli intellettuali e vivificata dalle persone semplici, come nel caso del Circolo Istria”. Convinto dell’efficacia di questa terza via, Suzuki ricorda la vittoria di un’altra minoranza, 30 anni fa a Trieste, e prende a prestito le parole di Franco Basaglia: «Noi, nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo – diceva Basaglia – non possiamo vincere. È il potere che vince sempre; noi possiamo al massimo convincere. Nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo, cioè determiniamo una situazione di trasformazione difficile da recuperare».

Giulia Basso

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