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Così si vive sul confine che non c’è più (Il Piccolo 30 dic)

di FRANCO DEL CAMPO

Chi governa la politica e l’economia di questo territorio europeo dovrebbe ascoltare l’intelligenza, la profondità, la lucidità e anche la generosità di persone comuni che hanno vissuto con il «confine dentro» ma vogliono prepararsi al futuro. Dovrebbe leggere con curiosità e attenzione i dati della Swg (raccolti a settembre su incarico del Corecom), che completano il progetto andando a chiedere a chi vive tra Trieste, Gorizia, Nova Gorica e Koper, italiani e sloveni, cosa prova, se e quanto si sente vicino/lontano da chi sta al di là del confine. I risultati sono di grande interesse.

Ormai viviamo su un confine distratto. Per quasi un secolo, che forse è stato breve, ma è sembrato lunghissimo e terribile, i confini si sono mossi sulle nostre terre come dei colpi di frusta, andando su e giù, lasciando ferite profonde sulla pelle di chi ci ha vissuto. Adesso il confine sembra dissolto, ma davvero le ferite sono scomparse? Davvero si può rimuovere un pezzo di storia europea come se niente fosse? Per l’opinione pubblica nazionale, per il sistema dei media e spesso anche per la politica italiana, sembra quasi che questo confine mobile non sia mai esistito e così, se non si conosce il passato, si può capire poco del presente e non si può costruire un futuro condiviso. Quante volte i media nazionali chiamano Tondo (ma succedeva lo stesso con Illy) presidente del Friuli e non si capisce se il troncamento della Venezia Giulia sia frutto di ignoranza o pigrizia, se sia una promozione o una sottrazione.

Rimuovere il ricordo di questo confine orientale, considerarlo una terra di nessuno o un non-luogo, dimenticare le sofferenze e le memorie, significa sprecare le potenzialità che potrebbero scaturire da esperienze che sono state laceranti ed ora potrebbero essere preziose. Le reciproche minoranze, per esempio, sembrano ridiventate ingombranti o inutili, mentre potrebbero funzionare come una sorta di sinapsi dell’intelligenza e della memoria condivisa.

Non sorprende se –come scrive Morelli- la politica e l’imprenditoria (più quella nazionale che quella locale in verità) si limitino al «vivacchiare stiracchiato dell’oggi», facendosi sfuggire le opportunità che ogni crisi propone. Le memorie e le intelligenze che sono nate e cresciute in queste terre complicate molto spesso rimangono sconosciute, salvo quando non diventano dei fenomeni letterari a scoppio ritardato, com’è successo prima a Svevo e poi a Pahor, mentre potrebbero essere preziose per parlare all’Europa. Per questo, forse, può essere utile ricordare i risultati di un piccolo progetto, «microstorie affollano il confine», che ha cercato di raccogliere testimonianze, linguisticamente miste, che nascono dentro un territorio che è sempre stato vicino e si è sentito artificiosamente e ideologicamente lontano. Chi governa la politica e l’economia di questo territorio europeo dovrebbe ascoltare l’intelligenza, la profondità, la lucidità e anche la generosità di persone comuni che hanno vissuto con il «confine dentro» ma vogliono prepararsi al futuro. Dovrebbe leggere con curiosità e attenzione i dati della Swg (raccolti a settembre su incarico del Corecom), che completano il progetto andando a chiedere a chi vive tra Trieste, Gorizia, Nova Gorica e Koper, italiani e sloveni, cosa prova, se e quanto si sente vicino/lontano da chi sta al di là del confine. I risultati sono di grande interesse ed hanno anticipato che lo sviluppo dei piccoli traffici sarebbe stato abbastanza limitato, ma moltissimi si sono dichiarati favorevoli a un confine che c’è ma non si vede.

Una minoranza non smette di aver paura e si sentiva più sicura con il confine sulla porta di casa (la percentuale è quasi identica per italiani e sloveni: 20-22%), ma le percentuali di chi ora si sente minacciato nella propria identità linguistica e culturale sono ridotte al minimo tra gli italiani (7%) e sensibilmente superiori per gli sloveni (16%). Chi vive sul confine si scambia le reciproche paure e sono soprattutto gli sloveni a temere che gli italiani esportino criminalità, droga, prostituzione e immigrazione clandestina, forse come paradossale e speculare condizionamento delle campagne di stampa dei media di casa nostra.

Molti sono consapevoli che ci saranno dei vantaggi economici (65%), ma il dato più interessante e prezioso è l’ottimismo degli italiani (80% rispetto al comunque consistente 65% del campione sloveno) che vive l’apertura dei confini come un’opportunità per un arricchimento linguistico e culturale.

Il secolo breve e terribile, che in nome dei nazionalismi e delle ideologie ha massacrato anche questo pezzo di Europa, è davvero finito. Da questi parti il terreno per una reciproca collaborazione e crescita sembra fertile: sarebbe davvero un peccato se lo si lasciasse inaridire per distrazione o pigrizia.

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