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C’era una volta la Parenzana

C’era una volta un treno. Non era uno di quelli che sfrecciano veloci, sbuffando nelle immense praterie del Nord America e nemmeno uno di quelli moderni e all’avanguardia che connettono due estremi di un continente. Niente di tutto ciò. Il nostro protagonista era invece un convoglio lento, che percorreva una ferrovia a scartamento ridotto, ma lui era felice del suo destino. In fondo, trascorreva le sue giornate godendosi il paesaggio che si snodava lungo il suo percorso di 123 chilometri tra dolci colline coltivate a viti, olivi, alberi da frutto e campi di grano, che in estate si stagliavano all’orizzonte con il loro giallo intenso. A fargli compagnia c’erano gli uccellini che lo accompagnavano e i falchi che volteggiavano alti e maestosi nel cielo. Gli animali che trascorrevano la loro tranquilla esistenza lungo il percorso lo salutavano sempre al suo passaggio: le pecore che brucavano l’erba, le capre che pascolavano tra gli arbusti più ispidi, le mucche che si crogiolavano al sole con i loro vitelli e anche gli asini, che una volta erano numerosi in quel luogo, si fermavano al suo transito per porgergli un saluto affettuoso. Anche gli animali selvatici avevano imparato a riconoscerlo, ormai non si spaventavano più sentendolo arrivare in lontananza e il fischio della sua locomotiva non era più motivo di terrore; non correvano più impauriti a nascondersi, ma continuavano a gustarsi l’erba ai margini della boscaglia.
Il treno si rasserenava a vedere tutta questa natura lussureggiante e armonica e, mentre scivolava leggero dai pendii o si inerpicava a fatica lungo le salite, si immedesimava in quella miriade di persone che incontrava nelle campagne, per i sentieri che portavano a paesini sperduti, o si trasformavano in strade e raggiungevano cittadine laboriose, o porticcioli di mare con un vociare concitato di pescatori.
Quel mezzo, che oggi a molti potrebbe sembrare sgangherato e malridotto, in realtà aveva una cosa in comune con gli abitanti del territorio che attraversava: era caparbio, laborioso e accogliente. Non si preoccupava mai di chi fossero i suoi passeggeri, tutti erano i benvenuti, perché proprio come l’Istria che lo accoglieva, anch’egli sapeva di essere soltanto un semplice crocevia di popoli, etnie e persone. In fondo, un treno è un mezzo che ci porta da un posto all’altro e che cos’ha di tanto diverso la terra? Un luogo in cui si nasce, si cresce, in cui a volte si mettono su le proprie radici, altre si va via per poi tornare, o forse no, in balia dei capricci del fato.

Grandi città e piccoli villaggi

La sua “culla” si chiamava Parenzana ed era un percorso ferroviario che collegava il porto di Trieste con la cittadina costiera di Parenzo, attraversando l’entroterra dell’Istria nord-occidentale, isolato dal traffico commerciale. Al protagonista di questa nostra storia avevano raccontato che nel 1876 ci fu l’inaugurazione ufficiale della ferrovia istriana, ma lui non ne sapeva nulla, perché fece il suo debutto appena anni dopo. Infatti, quando costruirono questa prima rete si scordarono di includervi tutta una parte della penisola, che rimase separata dalle grandi città che rappresentavano ricchezza e benessere economico. A che serviva produrre latte, formaggio, olio, vino, prosciutti se poi non c’era nessuno a cui venderli? Tutti sanno che nei piccoli villaggi non c’è il capitale necessario a garantire la loro sopravvivenza e che per distribuire beni preziosi e genuini è essenziale un mercato prosperoso. Ma tant’è che per una svista o un errore di calcolo, un’intera fetta d’Istria rimase abbandonata a sé stessa. Fortunatamente, qualche mente ingegnosa si rese conto che forse sarebbe stato il caso di far passare un treno attraverso 33 cittadine e collegarle così al resto del mondo o, senza esagerare troppo, al resto dell’Europa. Costruire una ferrovia non è però un gioco da ragazzi, quindi ci vollero diversi anni affinché il progetto venisse approvato da Vienna, capitale dell’Impero Asburgico, di cui questa terra all’epoca faceva parte. Nel 1900 cominciarono ufficialmente i lavori, resi possibili grazie soprattutto al prezioso contributo di contadini, artigiani e giovanotti locali, che si adoperarono diligentemente dalle cinque di mattina alle sette di sera, terminando la costruzione in soli due anni.

Era il 1º aprile del 1902 quando il treno fece il suo primo viaggio lungo la tratta Trieste – Buie, mentre il 15 dicembre dello stesso anno fu inaugurata anche la seconda parte del percorso, la quale andava da Buie a Parenzo.

Il treno, al momento della partenza, era raggiante, impaziente di scoprire dove lo avrebbero portato quei binari costruiti appositamente per lui. Quel giorno il porto imperiale da dove partiva, lo aveva accolto in pompa magna, con tanto di autorità e curiosi accorsi per assistere al primo dei suoi tragitti. Trieste era già di per sé magica, con quella sua “scontrosa grazia” – mai definizione fu più azzeccata – descritta dal grande Umberto Saba, sommersa da un fermento di attività e un brulichio incessante di persone, in quel mescolarsi di aristocratici, lavoratori e portuali, senza tralasciare quella borghesia che all’inizio del secolo scorso diede lustro alla città. Una delle prime tappe di quel viaggio fu Muggia, località italiana adagiata sul mare, dall’ottica geografica confine estremo dell’Istria, con il suo porticciolo pittoresco e il castello che lo sovrasta dall’alto. E poi via verso Pirano, città che ricorda Venezia, con le sue viuzze strette, la piazza adagiata a ridosso del mare e il Duomo di San Giorgio che svetta dall’alto a dominare la vastità del mare che lo circonda.

La fatica dei salinari

Sicciole invece era tutt’altra storia… Lì, a farla da padrona, erano il lavoro e la fatica, quella fu la prima volta che il treno vide le saline e rimase incantato da quel profilarsi di rettangoli in cui si accumulava il sale, i quali si perdevano all’orizzonte. Con il tempo avrebbe capito quanto fosse difficile la vita dei salinari, che trascorrevano la giornata immersi in quell’acqua bassa zeppa di cristalli bianchi luccicanti, così preziosi e allo stesso tempo essenziali per l’alimentazione. Non comprese subito come anche la più insignificante ferita potesse bruciare a contatto con tutta quella massa di sale, ma con il tempo imparò quanto fosse ardua quella vita fatta di stenti e sacrifici. Il treno lo capì ancora meglio quando sui suoi vagoni caricavano sacchi su sacchi di quel tesoro che i lavoratori continuavano a far emergere dalle acque dell’Adriatico e, subito dopo, iniziò la salita che lo avrebbe portato nel Buiese.

In quel primissimo viaggio, la Parenzana non passò per Portorose, la cittadina litoranea fu aggiunta al percorso appena due anni dopo, nel 1904, quando qualcuno si rese finalmente conto che includerla avrebbe arrecato guadagno a tutti. Infatti, già all’epoca la località rappresentava un importante centro termale, che attirava turisti benestanti e desiderosi di trascorrere il tempo libero tra la spiaggia e i palazzi eleganti con giardini curati e ombreggiati.

In quella salita impegnativa in cui si lasciava alle spalle le saline, ma anche il mare per inerpicarsi nell’entroterra il nostro protagonista si sentiva soddisfatto, consapevole del fatto che da lì a poco avrebbe raggiunto la sua destinazione. Giunto in cima si mise a correre, per quanto gli fosse possibile, tra campagne coltivate, pascoli che accoglievano animali stupiti e forse anche spaventati nel vedere quell’ammasso di ferro che si muoveva lungo le rotaie. I contadini nei campi, le donne affaccendate in casa, i bambini festanti, tutti accolsero quella locomotiva con i suoi vagoni, che passava disinvolta e fiera in quella natura che stava sbocciando in una giornata di inizio primavera.

A un certo punto vide in lontananza un colle, sul quale si ergevano affusolati i profili di due campanili, era la sua destinazione: Buie, la sentinella dell’Istria. Finalmente giunse ai suoi piedi, in una stazione nuova di zecca, costruita appositamente per lui. La gioia di essere arrivato e aver portato a termine quel suo primo viaggio era immensa, pari solo al giubilo delle persone radunate lì, per festeggiare un avvenimento che, ne erano sicure, avrebbe cambiato per sempre la loro città.

Due gravi incidenti

Passarono pressappoco 8 mesi e la Parenzana fu completamente terminata. Così, dal 15 dicembre 1902 Buie, da punto d’arrivo, si trasformò in una tappa di metà percorso, per raggiungere l’allora tanto lontana Parenzo. Anche quel secondo viaggio inaugurale ebbe un grandissimo successo e il treno fa accolto da una folla festante e commossa anche nella città che ospitava la Basilica Eufrasiana. Grazie a questo treno, un porticciolo di mare abitato per lo più da pescatori, era collegato direttamente a uno dei più importanti porti dell’Impero austro-ungarico: Trieste. Quel giorno di fine autunno, lasciandosi alle spalle Buie e raggiungendo la vicina Tribano, il nostro protagonista non sapeva che lì, anni dopo, sarebbe avvenuto uno dei suoi incidenti più gravi. In quel momento non poteva nemmeno immaginare cosa sarebbe successo in seguito: a fine giugno 1917, lasciata da poco la stazione di Tribano in direzione di Grisignana, deragliò. Tutt’ora non riusciva a capire bene le cause che lo fecero uscire dai binari, ma iniziarono a spargersi voci insistenti in cui si raccontava che in realtà erano stati i prigionieri russi, addetti alla manutenzione delle rotaie, ad allentare i bulloni e a farlo uscire dal tracciato. Quello non fu, però, l’incidente più terrificante che lo vide coinvolto: il peggiore avvenne nel 1910. La bora soffiava forte, con raffiche di una potenza inaudita e non illudetevi, cari lettori, la bora di una volta non era come quella di oggi. All’epoca ululava impetuosa e oscura e spazzava via tutto quello che incontrava. Il treno tentò con tutte le sue forze di opporsi alle sue raffiche implacabili, ma a un certo punto cedette e, nei pressi di Muggia, dietro al ponte sull’Ospo, si capovolse. Morirono tre persone, una tragedia che il poveretto non si perdonò mai. La colpa però non fu sua; per anni gli addetti ai lavori avevano chiesto di mettere in sicurezza quel tratto, ma esperti, che non avevano idea di cosa fosse realmente la bora, non lo ritennero necessario.

Inutile dire che dopo quel dramma si corse ai ripari e si installarono protezioni contro quel vento possente. Quel giorno, però, il nostro eroe era ancora all’oscuro di tutto ciò e si avviava felice e curioso verso Grisignana per scoprire come fosse quel piccolo borgo inerpicato anch’esso sopra a un colle da cui, gli avevano detto, si godeva una vista mozzafiato. Ed era proprio così, da lassù si dominava tutta la valle sottostante fino ad Antenal, dove il fiume Quieto e il mare si incontravano e poi lo sguardo si perdeva all’orizzonte in una distesa d’acqua blu.

Iniziavano a salire a bordo persone nuove, contadini e agricoltori che caricavano i loro prodotti per venderli in altre città e guadagnare qualcosa dal lavoro di tutto l’anno. Da lì finalmente iniziava una discesa tra boschi, campagne e casette di pietra sparse qua e là, fino a Levade, che si trovava proprio a fondo valle, circondata da colline che la proteggevano e ai cui piedi scorreva il fiume Quieto, tranquillo e pacifico, proprio come il suo nome.

La parte più difficile lo stava attendendo, ora bisognava salire fino a Montona, paese fortificato che, guarda un po’, si trovava sul cucuzzolo di un’altra collina. Il treno si arrampicava a fatica, talmente lento che i passeggeri con il tempo presero l’abitudine di scendere e fare un pezzo a piedi, gustandosi i frutti che pendevano dagli alberi piantati lungo la ferrovia. Durante quella salita faticosa, la locomotiva amava osservare i contadini e i buoi che aravano i campi e si sentiva come loro: forse non era il treno più lussuoso del mondo, né il più veloce, ma non si arrendeva mai e, sforzo dopo sforzo, raggiungeva la sua meta.

Lasciatasi dietro una collina, ne seguiva un’altra. Visinada lo accolse con il suo famoso mulino, un odore prelibato di dolci fatti in casa che si propagava leggiadro tra le vie e una massa di persone curiose ed eccitate di vedere passare un treno. Aveva quasi percorso tutti i suoi 123 chilometri, lo attendeva ancora Visignano con le sue calli di pietra e la chiesa gotica di Sant’Antonio. Dopo di che si diresse entusiasta alla volta di Parenzo, che lo aspettava a braccia aperte, contenta di poter dire di avere anche lei finalmente un treno tutto suo!

Una miriade di persone

Quello fu soltanto il primo di tantissimi viaggi, fu il più solenne, il più documentato e il più atteso certo, ma con il tempo la Parenzana comprese che l’essenza delle persone la poteva scoprire in un giorno qualunque. Negli anni vide una miriade di coppie darsi uno straziante bacio d’addio al momento della partenza, oppure abbracciarsi appassionatamente dopo una separazione che sembrava non finire più; così come osservò famiglie che salutavano i propri cari o che attendevano con ansia il ritorno di un parente lontano. C’era chi viaggiava per lavoro, chi per raggiungere altre città, chi rubava un passaggio per fare meno fatica. Ci sono stati anche soldati che hanno fatto la guerra e lo hanno sfruttato per trasportare armi e altre attrezzature. Così come c’erano i bambini che ogni volta che giocavano nei campi o nei pressi dei binari si fermavano a salutarlo, come si fa con gli amici, ma combinavano anche delle marachelle. Eccome se le combinavano! Il loro scherzo preferito era quello di spalmare in piena estate i fichi maturi sulle rotaie nei tratti più ripidi, così il povero treno scivolava e proseguiva il suo viaggio a fatica. Su quei vagoni, lungo quella ferrovia passò l’umanità con tutte le sue sfaccettature, le sue storie fatte di speranze, addii e ritorni. Dicono che nelle stazioni si riconoscono gli amori, quelli autentici e la Parenzana lo convinse fosse davvero così. Il nostro treno, simpatico, caparbio, ma non troppo fortunato, fece il suo ultimo viaggio il 31 agosto 1935 per posteggiarsi per l’ultima volta in Campo Marzio a Trieste. Lui avrebbe desiderato continuare a salire e a scendere dalle alture istriane, ma altri ritennero che non fosse più necessario. Dopo che smise di viaggiare e assistette allo smantellamento della ferrovia, trovò una flebile consolazione nel fatto che oggi il suo percorso è stato trasformato in Strada della salute e dell’amicizia, un percorso ciclabile e pedonale. Lo rincuora, pertanto, sapere che tuttora un incessante andirivieni di persone, con le loro storie continua a percorrerla, a incontrarsi e a innamorarsi, proprio come un tempo, circondato dalla natura istriana.

Nicole Mišon
Fonte: La Voce del Popolo – 11/03/2024

Prima e seconda parte della videoconferenza dedicata alla Parenzana dall’ANVGD di Milano:

 

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