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Beni degli esuli: si può ancora sperare – 31mar14

 

Finalmente si torna a parlare di beni degli esuli. Il merito va all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, il cui Comitato provinciale di Gorizia ha promosso una tavola rotonda svoltasi venerdì 21 marzo nel capoluogo isontino presso la sala “Carlo X” del Grand Hotel Entourage di Piazza S. Antonio. Oltre al folto pubblico, molti hanno seguito gli interventi in diretta streaming sul sito www.direttatv.net o successivamente su Youtube anche tramite il sito www.anvgd.it

 

Introducendo i lavori, il vicepresidente nazionale dell’Anvgd Rodolfo Ziberna ha definito la questione molto incerta, rammentando che l’Italia pagò gran parte dei debiti di guerra alla Jugoslavia vendendole i beni immobili degli esuli istriano-fiumano-dalmati, e che le speranze di restituzione suscitate alle fine degli anni ’90 dalla Suprema corte croata e nel dicembre scorso dai presidenti dei Parlamento austriaco e croato sono rimaste tali, così come le tante promesse fatte dai Governi italiani sugli indennizzi definitivi. Nel sito www.anvgd.it si potranno trovare e scaricare liberamente i testi scritti degli interventi del convegno (compreso quello dell’avv. Gian Paolo Sardos Albertini, assente per ragioni di lavoro) e tanti documenti utili in materia.

 

Ha moderato i lavori il docente dell’Università di Trieste e avvocato Davide Rossi, membro del comitato scientifico della Fondazione Magna Carta e del direttivo di Coordinamento Adriatico. Nel suo discorso introduttivo ha spiegato che la tavola rotonda è un punto di arrivo ma soprattutto un punto di partenza. Se da una parte infatti sono stati chiamati relatori occupatisi negli ultimi 15-20 anni di tali tematiche, dall’altra si è voluto fornire tramite il portale web un punto di riferimento logistico su questi temi accessibile non solo ai cittadini italiani residenti a ridosso del confine orientale, ma anche a tutti gli altri interessati. Dopo un breve quadro storico dell’area alto-adriatica, Rossi ha ricordato come le discussioni sui beni degli esuli iniziate negli anni ’90 abbiano finora condotto a ben pochi risultati.

 

Ulrike Haider Quercia, docente universitaria e capolista alle elezioni europee dell’Unione per il Futuro dell’Austria, ha affermato che l’Unione Europea deve garantire i diritti di tutti gli esuli europei, compresi i giuliano-dalmati. Il tema degli esodi non va consegnato alla storia ma va considerato come attuale. Occorre fargli assumere dignità universale perché si è ripetuto troppe volte e in troppo luoghi. Gli esuli europei hanno il diritto di tornare a vivere nel proprio territorio di insediamento mantenendo la propria nazionalità e i propri beni posseduti prima del secondo conflitto mondiale. I diritti delle minoranze riguardano anche esuli e rifugiati. L’Europa è un’incompiuta e deve riprendere in mano il progetto unitario dei padri fondatori, i loro ideali traditi. Dall’incontro fra i Presidenti dei Parlamenti austriaco e croato non è ancora scaturita alcuna trattativa sui beni “abbandonati” austriaci, tema da affrontare in un’ottica europea e su cui sarebbe utile tenere un convegno a Bruxelles.

 

Il prof. Rossi ha fatto presente che l’Allegato XIV del Trattato di pace del 1947 riconosceva ai cittadini italiani optanti il diritto soggettivo perfetto sui beni situati nei territori ceduti. Ma nel maggio 1949 un accordo italo-jugoslavo prese atto delle misure di nazionalizzazione ed espropriazione di tali beni, trasformati in proprietà collettiva. Una commissione mista italo-jugoslava ebbe il compito in base all’art. 4 di elencare una lista di beni indennizzabili, fissare le categorie per la classificazione dei beni e la determinazione dei principi valutativi, nonché stabilire per ciascuna categoria il rapporto tra il valore originario e le variazioni intervenute nel tempo. Nel dicembre 1950 un secondo accordo bilaterale reso esecutivo con legge 10 marzo 1955, n.192 introdusse il principio secondo cui lo Stato italiano poteva detrarre il valore dei beni dalle indennità di guerra destinate alla Jugoslavia, in violazione al trattato del 1947. Seguirono il Trattato di Osimo del 1983 e l’Accordo di Roma del 1983.

 

Quando la Jugoslavia si sgretolò, gli internazionalisti si confrontarono sui principi pacta sunt servanda e rebus sic stantibus, che furono alla base rispettivamente della Commissione Leanza, presieduta dall’allora responsabile giuridico della Farnesina prof. Umberto Leanza, e della Commissione Maresca, presieduta dal prof. Maurizio Maresca ed espressa dalle realtà locali triestine e del Friuli Venezia Giulia. Dai due principi derivavano conseguenze giuridiche diverse circa l’applicabilità dei trattati agli Stati successori della Jugoslavia. Una commissione mista italo-croata, cui partecipò per FederEsuli l’elaboratore del documento finale della Commissione Leanza prof. Giuseppe de Vergottini, avrebbe dovuto stendere una bozza di nuovo trattato che superasse i problemi legati alla denazionalizzazione croata e slovena. Nella giurisprudenza europea si cercò invano un’ancora di salvataggio per risolvere tale questione tuttora aperta.

 

Il coordinatore scientifico della tavola rotonda Giuseppe de Vergottini, professore emerito di diritto costituzionale, presidente onorario dell’Associazione di Diritto Costituzionale, direttore della rivista scientifica della Fondazione Magna Carta “Percorsi istituzionali” e presidente di Coordinamento Adriatico, è partito dal Trattato di pace, che assicurava sulla carta le proprietà private italiane nella piena disponibilità dei proprietari. Ma la situazione era già scappata di mano poiché fin dal settembre 1943 alcune confische avevano colpito soprattutto i soggetti considerati ostili al regime jugoslavo. Il Trattato del 10 febbraio 1947 era dunque il punto di arrivo di una situazione che aveva compromesso il diritto di proprietà dei beni privati italiani. Successivamente l’Italia pensò di sgravarsi di una parte dei debiti di guerra verso le potenze vincitrici, tra cui la Jugoslavia, facendo una sorta di pacchetto delle proprietà private italiane. L’impostazione dunque cambiò non solo per il malanimo jugoslavo, ma anche per un malinteso senso pratico italiano. Ne derivò un grosso pasticcio giuridico: grazie ai trattati bilaterali italo-jugoslavi attuativi del Trattato di pace i beni confiscati ad personam o espropriati per legge furono acquisiti alla proprietà sociale jugoslava.

 

Dopo aver definito «quasi catastrofica» la vicenda degli indennizzi, trascinatasi per decenni e non ancora conclusa, il prof. de Vergottini ha ricordato come con la dissoluzione della Jugoslavia si riattivò il dibattito per il recupero delle proprietà. Il punto era se Slovenia e Croazia avrebbero ereditato dalla Jugoslavia i trattati attuativi di quello del 1947. Alcuni asserivano che era mutato radicalmente il panorama internazionale, che nelle due nuove Repubbliche non c’era più la proprietà sociale e che riprendeva vigore il principio della proprietà privata; ragion per cui, in base al principio rebus sic stantibus, non avevano più valore i trattati sottoscritti in una situazione completamente diversa. Bisognava dunque azzerare e ridiscutere tutto da zero. Un secondo orientamento sosteneva invece la continuità dei trattati fra Jugoslavia e Stati successori. In questa situazione confusa il Governo e il Parlamento italiano non espressero una posizione chiara e netta e di fatto accettarono il subentro di Croazia e Slovenia prendendo per vincolanti i trattati preesistenti.

 

La Commissione Leanza, il cui documento finale fu redatto dal prof. de Vergottini, cercò di vedere se vi erano spazi per riaprire le trattative con Slovenia e Croazia sulle proprietà passate in mano pubblica. Individuò varie situazioni che non rientravano nei trattati bilaterali italo-jugoslavi, i quali avevano regolato solo i beni degli optanti ma non quelli sottoposti a provvedimenti espropriativi individuali o generalizzati fra il settembre 1943 e il febbraio 1947 o quelli dei soggetti che dopo il 1947 abbandonarono il territorio senza optare. Oltre a questi due vi sono ancora altri casi, ma di tipo più “avvocatesco”. Nel complesso è molto consistente il numero dei beni non contemplati dai trattati per i quali sarebbe rimasto integro il diritto di proprietà. In base agli esiti della Commissione Leanza, il Governo italiano disse, sia pure con scarsa convinzione, che occorreva rimettere in moto la trattativa. La Slovenia non manifestò interesse, mentre la Croazia inizialmente sì. Una commissione bilaterale italo-croata si riunì tre volte. Alla delegazione croata fu consegnato un memorandum italiano che, seguendo in modo molto sommario e impreciso i presupposti della Commissione Leanza, cercava di riaprire il negoziato. Non si contestava il principio dei trattati vincolanti, ma si diceva che esistevano spazi consistenti scoperti dai trattati.

 

Questo memorandum non ottenne mai una risposta scritta. Tutto morì lì perché il Governo italiano non volle insistere più di tanto sulla vicenda. In Croazia e Slovenia le leggi di denazionalizzazione privilegiarono sloveni e croati, essendo applicabili solo agli ex cittadini jugoslavi o a quanti avevano un aggancio di tipo nazionale. Ora che Slovenia e Croazia sono entrate prima nel Consiglio d’Europa, legandosi alla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, e poi anche nell’Unione Europea, siamo in un unico bacino di regole giuridiche, fra cui il diritto di proprietà, la tutela delle minoranze e la non discriminazione su base etnica. Occorre verificare se è possibile rendere attivi questi principi sospesi a mezz’aria o se dobbiamo arrenderci perché una cosa è la teoria e un’altra la pratica.

 

L’avv. Paolo Sardos Albertini, presidente della Lega Nazionale e presidente onorario del CDM di Trieste, cominciò a occuparsi dei beni nel 1991, quando era alla guida di FederEsuli. Il 15 gennaio 1992, subito prima di riconoscere Slovenia e Croazia, il ministro degli Esteri Gianni De Michelis lo convocò informandolo che il riconoscimento era subordinato a due condizioni: la firma di un memorandum trilaterale sulle rispettive minoranze e l’impegno ad avviare negoziati sui beni, il che significava che la questione non era chiusa. La Croazia firmò il memorandum. La Slovenia si impegnò a rispettarlo come se lo avesse firmato. Ma il Governo italiano cadde, alla Farnesina subentrò prima Giovanni Goria, poi Emilio Colombo, e il 1° luglio 1992 la Slovenia mandò una nota manifestando la volontà di subentrare in un centinaio di trattati italo-jugoslavi, tra cui quello di Osimo. La nota fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale – Parte terza (quella dei comunicati) l’8 settembre 1992. In calce stava scritto che il Ministero degli Esteri aveva preso atto con soddisfazione del subentro. Firmato: il sottosegretario Valdo Spini. Le associazioni degli esuli mobilitarono l’opinione pubblica contro “Osimo bis”. Nel novembre ’92 Colombo, intervenendo alla Camera, disse imbarazzato che quella nota non significava nulla e che si sarebbero aperti immediatamente i negoziati sui beni. Ma cadde di nuovo il Governo e non si fece alcun passo. Nell’ottobre 1994 il sottosegretario agli Esteri del Governo Berlusconi Livio Caputo firmò ad Aquileia con il ministro sloveno Lojze Peterle un accordo sulla restituzione di un certo numero di beni. Non erano molti, ma almeno si affermava il principio della rinegoziazione. Peterle fu tuttavia sconfessato dal Parlamento sloveno e così tutto andò a monte.

 

Il ministro degli Esteri del Governo Dini, Susanna Agnelli, inizialmente molto scettica e distaccata nei confronti delle richieste degli esuli, poi cambiò atteggiamento. FederEsuli diceva: Slovenia e Croazia sono subentrate alla Jugoslavia, dicono di non essere più comuniste e hanno varato leggi sulla denazionalizzazione che prevedono o la restituzione del bene o, se impossibile, un bene alternativo o, se impossibile anche questo, un indennizzo con titoli di Stato. Ma una clausola stabiliva che tali leggi non si applicavano ai cittadini stranieri. Vi era dunque un’inconcepibile discriminazione sulla base della cittadinanza, che FederEsuli chiedeva venisse tolta come condizione per l’ingresso della Slovenia nell’Unione Europea. Su questo la Agnelli seguì gli esuli e ottenne che fosse l’Europa stessa a mettere come condizione il compromesso Solana, che regolamentava la riapertura del mercato immobiliare per gli stranieri previa soluzione dei problemi bilaterali italo-sloveni.

 

Nel maggio 1996, quando il primo Governo Prodi non aveva ancora avuto il voto di fiducia di entrambe le Camere, il nuovo Sottosegretario Esteri Piero Fassino si precipitò a Lubiana a dire che l’Italia non aveva niente da pretendere e che la Slovenia poteva entrare gratis nell’Ue. A Trieste in un’assemblea dell’Anvgd mostrò a un folto pubblico un compromesso secondo cui gli esuli avrebbero potuto riacquistare ciò che era stato loro rubato e liquidò le obiezioni di Sardos Albertini. Fu così persa una grossa occasione, perché la Slovenia era disponibile a negoziare. La spiegazione di quella clamorosa svolta giunse nel 2003, quando nella sua autobiografia Per passione Fassino raccontò che il presidente americano Clinton aveva telefonato a Prodi per chiedergli di risolvere immediatamente la questione con sloveni e croati.

 

La Croazia ha sempre giocato di rimessa rispetto alla Slovenia perché era questa che doveva entrare per prima in Europa. Nel 2003 Sardos fu invitato a Zagabria dall’allora capo dell’Hdz Ivo Sanader prima delle elezioni politiche. Nell’incontro ragionarono su una prospettiva del tipo: lasciamo stare le analisi e le controversie sui trattati; ci sono tanti beni in Croazia di proprietà pubblica non utilizzati; ragioniamo su questi. Lo Stato croato, cui non interessano, li restituisce e il cittadino italiano già proprietario di una catapecchia che si vede restituita si darà da fare per rimetterla a posto. Tale operazione, se integrata da interventi dello Stato italiano di credito agevolato, sarebbe stata per la Croazia a costo zero e le avrebbe garantito sicuri vantaggi economici oltre che politici, mentre per l’Italia avrebbe significato venire incontro a una richiesta di giustizia dei suoi cittadini. Dunque stava in piedi. Come sempre, gli accordi migliori sono quelli che convengono a entrambe le parti. Dopo le elezioni croate, vinte da Sanader, Sardos inviò un promemoria all’allora Sottosegretario agli Esteri Roberto Antonione invitandolo a muovere i funzionari della Farnesina per verificare se quella strada era praticabile. Ma non ebbe risposta. Successivamente fu ricevuto a Roma dal vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Gianfranco Fini, che dimostrò interesse per l’ipotesi espostagli sui beni ma che, dopo aver ricevuto tre telefonate, sembrò distrarsi. Sta di fatto che non ne venne fuori nulla. Dunque i governanti italiani hanno finora dimostrato qualche singolo sprazzo di interesse immerso in un mare di disattenzione, perché non si ricordano degli esuli, che tanto non contano, e perché si tratta di cose vecchie.

 

La Commissione Maresca, voluta dal presidente della Provincia di Trieste Renzo Codarin, si mosse sul principio rebus sic stantibus, che considera il diverso status dei beni immobili in un regime comunista e in uno liberale. Perciò fermarsi ai trattati senza valutare quanto è successo dopo era miope e antigiuridico. Inoltre l’aver pubblicato la nota slovena sulla “Gazzetta Ufficiale” – Parte terza senza un voto parlamentare non bastava a riconoscere il subentro ad un accordo non territoriale come quello di Roma. Se manca la volontà politica, non esiste motivo giuridico che tenga. Il prof. Umberto Leanza convocò le associazioni degli esuli per invitarle a ricorrere in sede europea. La risposta di Sardos fu che sarebbe servita una sentenza definitiva croata o slovena, ma che lui non se la sentiva di suggerire agli esuli espropriati la strada dei ricorsi. Secondo Leanza, però, la violazione contenuta nelle leggi di denazionalizzazione era talmente macroscopica che avrebbe potuto essere sufficiente presentare un ricorso in sede europea. Lo si fece, ma venne respinto.

 

Sardos crede che di fronte a problemi di tale entità o si trova una soluzione politica o altrimenti è difficile. Occorre la volontà degli Stati e la convinzione che sia conveniente per loro trovare un accordo. All’epoca dell’incontro con Sanader, che disse di non avere la fobia dell’irredentismo italiano, i presupposti c’erano e ci possono essere a maggior ragione oggi che si è decantata quella resistenza psicologica croata, ma ancor più slovena, per cui restituire i beni agli esuli italiani era un tabù. In compenso ci vorrebbe un grandissimo atto di ottimismo per pensare che da parte italiana ci possa essere più attenzione.

 

Il moderatore Rossi ha riferito in sintesi il concetto base dei ricorsi presentati dall’avv. Gian Paolo Sardos Albertini, ovvero che secondo il principio rebus sic stantibus devono essere ridiscussi i trattati con gli Stati successori della Jugoslavia i quali hanno riconosciuto il diritto di proprietà. Tali ricorsi, anche se non coronati da successo, sono necessari per adire poi la Corte dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo, che si può pronunciare solo una volta esperiti tutti i gradi di giudizio interni.

 

L’avvocato romano Vipsania Andreicich ha riferito di aver iniziato a occuparsi sul piano legale della restituzione dei beni degli esuli quando in Croazia nel 2002 fu emanata la legge 81 a seguito della sentenza della Corte suprema che dichiarò l’illegittimità costituzionale della precedente legge sulla denazionalizzazione la quale escludeva i cittadini stranieri. La nuova normativa prevedeva la restituzione anche agli stranieri in presenza di specifici accordi di diritto internazionale e riapriva di sei mesi i termini per la presentazione delle domande, con scadenza il 5 gennaio 2003. In pratica ciò che non eravamo riusciti a fare noi tramite le nostre autorità era riuscita a farlo la Croazia. Il varo della legge e l’avvio di una commissione mista italo-croata fecero ben sperare l’avv. Andreicich, che presentò alla Croazia domanda di restituzione per i beni di suo padre, originario da Abbazia, e poi anche di altri esuli: in tutto una ventina. Le domande erano complesse perché occorreva in tempi stretti redigerle in croato, indicare le partite tavolari (nel frattempo completamente cambiate), i titoli ereditari (allegando un albero genealogico) e le misure espropriative adottate.

 

Tali domande rimasero lettera morta fino al 2008, quando un cliente dell’avv. Andreicich ricevette una lettera in croato che richiedeva di inviare entro 15 giorni nuovi documenti difficilissimi da trovare e l’obbligo di domiciliarsi presso un avvocato croato. L’avv. Andreicich, in collaborazione con l’avv. fiumano Anita Prelec, procurò tutta la documentazione richiesta, ma ottenne risposta negativa perché la legge prevedeva restituzioni, beni sostitutivi o indennizzi solo per i cittadini di Paesi con i quali accordi internazionali o bilaterali non avessero già chiuso la questione. E questo era il caso del Trattato di pace con l’Italia, che contemplava la cessione dei beni degli esuli in conto danni di guerra. Chi doveva tutelarli era Italia. Perché ora si rivolgevano alla Croazia, che stava rispettando i trattati? Avrebbero dovuto chiedere all’Italia un giusto indennizzo.

 

In quegli stessi anni una signora presentò all’avv. Andreicich il caso del marito esule fiumano, uno dei pochi a essere ricompresi nella lista A, che elenca 500 beni lasciati in libera disponibilità ai cittadini italiani nei territori ceduti. Oltre a questa c’è anche la lista B, includente 179 beni della Zona B del TLT. La signora aveva dei nipoti ai quali avrebbe voluto lasciare un’eredità. Ma l’avvocato scoprì che quei beni erano occupati da cittadini autorizzati dalle autorità locali. Uno addirittura era stato venduto. Nel 2009 l’avvocato lo raccontò ad un tavolo di lavoro dove era presente il Sottosegretario agli Esteri Mantica, sottolineando come la Croazia, contrariamente ai proclami, non rispettasse i trattati. Il giorno dopo la Farnesina le affidò l’incarico di verificare a chi fossero intestati i 179 beni “liberi” della Zona B. Lei e l’avv. Prelec controllarono sui tavolari le particelle, da cui desunsero che la maggior parte di quelle proprietà risultavano intestate ad amministrazioni croate e slovene dell’ex Zona B (principalmente i Comuni, che avevano effettuato la nazionalizzazione). Dunque sia la Slovenia che la Croazia violavano l’accordo italo-jugoslavo del 1983. L’avv. Andreicich consegnò un prospetto al Ministero degli Esteri, immaginando che l’inadempimento sloveno-croato potesse far riaprire i negoziati. In precedenza era già stato eccepito un altro inadempimento, poiché Slovenia e Croazia non avevano mai completato il pagamento dei 110 milioni dollari dovuti all’Italia dalla Jugoslavia in base all’Accordo di Roma del 1983. Ma Lubiana e Zagabria affermavano di essere disposte a onorare il debito. Invece la mancata consegna dei beni liberi era un inadempimento palese.

 

Purtroppo gli impegni dei Governi italiani sono stati sempre molti, ma i risultati ben pochi. Gli unici beni italiani di cui si sia finora riusciti ad ottenere la restituzione sono quelli “dimenticati”, per i quali cioè nessuno trascrisse decreti di nazionalizzazione o confisca e che pertanto erano rimasti intestati ai vecchi proprietari, molti dei quali nemmeno lo sapevano. Alcuni discendenti lo scoprirono ricevendo telefonate di croati che volevano acquistarli ad un giusto prezzo.

 

Nel 2009-2010 fece grande scalpore una sentenza della Corte suprema croata che lasciava presagire una restituzione dei beni anche agli italiani. In realtà confermava i principi della legge vigente, pur riconoscendo la restituzione dei beni a una cittadina brasiliana, ossia di uno Stato con il quale la Croazia non ha accordi in materia. La legge croata prevede la restituzione in soli due casi: quando la questione non sia stata già risolta da accordi internazionali o quando ve ne sia uno specifico per la restituzione. Gli esuli istriano-fiumano-dalmati non rientrano in nessuno dei due casi, perché la questione dei loro beni è stata già risolta dai trattati con la Jugoslavia e perché nessun accordo con Slovenia e Croazia ne prevede la restituzione. L’avv. Andreicich è dunque un po’ pessimista e non ha nemmeno inviato la documentazione integrativa richiesta dalle autorità croate per i beni di suo padre, sapendo che la risposta sarebbe stata negativa. E dubita che al momento possano arrivare risposte positive.

 

L’avvocato Anita Prelec ha riferito che la chiamano persone cui arriva dalla Croazia un foglio dove si chiede loro di inviare la traduzione asseverata in croato della domanda presentata entro il 5 gennaio 2003, nominare un avvocato croato e presentare documenti che attestino il numero attuale della particella tavolare del bene, quello storico, la parentela di primo grado (niente zii o nipoti), la nazionalità del de cuius quando gli fu detratto il bene e la nazionalità della persona che ora lo chiede. L’avv. Prelec cerca di raccogliere la documentazione, avvisando però i clienti di essere scettica perché finora non sono mai giunte risposte positive.

 

Una delle argomentazioni da lei invano tentate è di far dire ai figli allora ultra-diciottenni o non sposati degli ex proprietari che in realtà loro non condividevano l’opzione del padre e che sarebbero voluti rimanere; ma l’art. 79 del Trattato di pace non fornisce appigli perché affidava la scelta solo al padre. L’art. 74, comma 1 prevedeva che l’Italia pagasse alla Jugoslavia riparazioni di guerra per 125 milioni di dollari. L’art. 79 recitava: «Ciascuna delle Potenze Alleate e Associate avrà il diritto di requisire, detenere, liquidare o prendere ogni altra azione nei confronti di tutti i beni, diritti e interessi, che, alla data dell’entrata in vigore del presente Trattato, si trovino entro il suo territorio che appartengano all’Italia o a cittadini italiani e avrà inoltre il diritto di utilizzare tali beni o proventi della loro liquidazione per quei fini che riterrà opportuni, entro il limite dell’ammontare delle sue domande o di quelle dei suoi cittadini contro l’Italia o i cittadini italiani, ivi compresi i crediti che non siano stati interamente regolati in base ad altri articoli del presente Trattato. Tutti i beni italiani od i proventi della loro liquidazione, che eccedano l’ammontare di dette domande, saranno restituiti».

 

Chi optava – ha sostenuto l’avv. Prelec – rinunciava ai propri beni. Gli esuli che non hanno mai optato si chiedono perché si sono visti sottrarre i beni. La risposta sta nell’art. 79, comma 1, dove si parla di «cittadini italiani», dunque non solo gli optanti. Il comma 3 dice che «il Governo italiano si impegna a indennizzare i cittadini italiani, i cui beni saranno confiscati ai sensi del presente articolo e non saranno loro restituiti». Il costo del ricorso in sé non è alto. Dipende dalla quantità e dal luogo dei documenti da rinvenire, oltre che dal numero delle udienze. Ma per gli optanti finora l’esito è stato sempre negativo. Di questi ricorsi amministrativi si occupano gli uffici comunali, dove lavorano funzionari non sempre con la laurea in legge.

 

Secondo l’avv. Prelec, l’unica strada che rimane sono le liste dei beni liberi degli optanti. Nei Tribunali comunali ha trovato quelle dei beni tuttora iscritti a nome degli antenati dei suoi assistiti e ha fatto le trascrizioni di proprietà a vantaggio di questi. Al numero 28 della lista A risulta iscritta una signora come proprietaria di due case (ognuna con due appartamenti), che il Comune di Fiume aveva dato in uso o venduto. Quando il procedimento stava andando a buon fine, il Comune ha intentato una causa per abbandono dei beni da parte della signora sostenendo che le due case erano diventate proprietà del Comune. Malgrado ciò l’avvocato ha vinto, costringendo il Comune a risarcire il danno, ma sta ancora battagliando per far uscire gli attuali inquilini, protetti da una legge sugli affittuari dello Stato. Intanto la sua assistita ha più di 90 anni.

 

Sanader poteva promettere di restituire le catapecchie, ma se dentro vi abita qualcuno è difficile. Il nonno materno dell’avv. Prelec, fiumano “rimasto”, aveva un importante negozio di scarpe nel centro cittadino il cui edificio fu distrutto da una bomba e al suo posto fu realizzata una piazza. La famiglia, tutta di “rimasti”, ha chiesto la restituzione, ma la risposta è stata che i quattro eredi avrebbero potuto avere solo 50 euro. Alla fine non ebbero neanche quelli perché la zia aveva fatto la richiesta solo a nome dei figli del defunto nonno, non tenendo conto anche della nonna, cui era passata la proprietà. Comunque in Croazia la legge sulla denazionalizzazione non è rimasta lettera morta, si applica e sono stati restituiti anche beni importanti a cittadini croati. «Allora – ha commentato Paolo Sardos Albertini – è vero che siamo discriminati».

 

Il professore dell’Università di Verona e avvocato Davide Lo Presti ha fatto una panoramica sulla giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo in tema di espropriazione e nazionalizzazione per rispondere alla domanda se ha ancora senso per gli esuli (italiani e non) attendersi il riconoscimento delle proprie istanze a livello comunitario. La delusione prevale dopo che nel decennio dal 21 febbraio 2003, quando la Croazia presentò l’istanza di adesione, al 1° luglio 2013, quando entrò, alcune aperture dell’allora presidente Mesić e della Dieta Democratica Istriana hanno lasciato ben sperare. Non era in ballo la restituzione di un bene abitato da una famiglia croata per cinquant’anni, ma almeno un equo aggiornamento ai valori attuali onde riparare il torto subito. La politica – soprattutto italiana – ha fallito perché non ha ottenuto niente in cambio dell’adesione della Croazia all’Ue.

 

L’esproprio dei beni “abbandonati” ha calpestato il diritto di proprietà, oltre che quello di non discriminazione e di tutela delle minoranze. L’art. 345 (ex 295) del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea lascia impregiudicato il regime di proprietà esistente nei singoli Stati. Tuttavia il diritto di proprietà è entrato nell’ordinamento comunitario in ragione sia della giurisprudenza comunitaria sia del riconoscimento della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. La Corte con una sentenza del 1974 ha per la prima volta riconosciuto il diritto di proprietà come parte dei principi fondamentali dell’ordinamento comunitario, di cui si è impegnata a garantire l’osservanza. La Carta all’art. 17 afferma che: «ogni individuo ha il diritto di godere della proprietà dei beni che ha acquistato legalmente, di usarli, di disporne e di lasciarli in eredità. Nessuno può essere privato della proprietà se non per causa di pubblico interesse, nei casi e nei modi previsti dalla legge e contro il pagamento in tempo utile di una giusta indennità per la perdita della stessa». Il diritto di proprietà è rafforzato dall’art. 52, primo e terzo comma, della Convenzione, che lo tutela anche dalle limitazioni degli Stati nazionali.

 

La nuova versione consolidata del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, in vigore dal 1° dicembre 2009, riconosce all’art. 6, comma 1° i diritti, le libertà e i principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, «che ha lo stesso valore giuridico dei trattati». Tale riconoscimento ha rafforzato il filone giurisprudenziale sul principio di proprietà avviato nel 1974 rendendolo sempre più autorevole. L’art. 6, commi 2 e 3 del Trattato recepisce la Convenzione affermando che i diritti fondamentali da essa garantiti «fanno parte del diritto dell’Unione in quanto principi generali». L’art. 1 del primo Protocollo addizionale della Convenzione afferma che «ogni persona fisica o giuridica ha diritto al rispetto dei suoi beni». La giurisprudenza comunitaria dà del concetto di “bene” una definizione assolutamente lata: può essere sia materiale, sia immateriale, sia un credito successorio sia un avviamento. Tutto ciò che può avere un’utilità dev’essere tutelato dall’espropriazione. La giurisprudenza della Corte dichiara che qualsiasi espropriazione, sia di fatto che di diritto, dev’essere indennizzata, ossia volta alla restituzione ad integro, al ritorno del bene al legittimo proprietario. Solo dove ciò non sia possibile, va riconosciuta agli espropriati un’indennità pari al valore attuale del bene.

 

Secondo il prof. Lo Presti, questo percorso frastagliato di riconoscimento europeo del diritto di proprietà è ancora in fase di maturazione, ma lascia margini di manovra e può dare adito a un ragionevole ottimismo, corroborato da pronunce giurisprudenziali in casi che hanno molti punti di contatto con la vicenda giuliano-dalmata. Due esempi mostrano la forza della giurisprudenza europea nell’incidere all’interno degli ordinamenti nazionali: la Corte ha condannato l’Italia per procedure espropriative non adeguate, in quanto riconoscevano agli espropriati un valore di gran lunga inferiore a quello venale del bene; una sentenza del 2004 della Corte ha condannato la Polonia per violazione dell’art. 1° del primo Protocollo addizionale alla Convenzione, in quanto aveva assegnato indennizzi inferiori alla metà del valore di mercato ai propri cittadini i cui beni “abbandonati” aveva ceduto con un accordo all’URSS. La Polonia avrebbe dovuto ristorare adeguatamente quei propri cittadini. Ciò non implica che tale precedente potrà essere utilizzato e trasposto ai beni degli esuli italiani. Infatti ogni fenomeno giuridico è prima di tutto politico, e quando si tratta di cifre cospicue gli interessi in gioco sono altissimi. Però c’è una qualche possibilità giuridica di far valere il diritto affermato dalla Convenzione.

 

Paolo Radivo

 

 

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