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V Seminario Miur, il commento di Egone Ratzenberger – 28mar14

 

Si è svolto a Brindisi dal 13 al 15 marzo scorsi il V Seminario nazionale 2014 riservato alla formazione dei docenti delle scuole italiane, promosso dal Gruppo di lavoro sul confine orientale istituito presso il Ministero della Pubblica Istruzione con le associazioni dell’esodo giuliano-dalmata.

 

Vi ha partecipato, quale testimone d’eccellenza, l’ambasciatore Egone Ratzenberger, nato a Fiume, esule in Italia, diplomatico di lunga carriera, al quale abbiamo chiesto un commento al Seminario, che pubblichiamo di seguito. Nella fotografia, da sin., la prof.ssa Cristina Benussi, il sindaco del Libero Comune di Pola, Tullio Canevari, e l’ambasciatore Ratzenberger (da www.scuolaeconfineorientale.it)

 

Viene quasi spontaneo parlare in prima battuta della locazione sita in un oliveto di Mesagne a 10 km da Brindisi in un’antica masseria corredata da albergo e sepolta fra gli olivi centenari. Come noto le masserie sono diffuse in tutta la Puglia e nell’Italia meridionale e credo siano sorte per un più attento sfruttamento delle campagne unitamente a motivi di protezione contro i malintenzionati. Per chi come me, vissuto in collegio a Brindisi per tre anni, è curioso questo ritrovarsi presso Mesagne, sempre apparso come un solatio polveroso borgo agricolo, mentre invece si appalesa al suo centro come un nobile nucleo di antiche case e chiese e anche un castello angioino. L’Italia è piena di sorprese.

 

Naturalmente in questa masseria tutto è arioso e moderno. Non mancano gli spazi, i parcheggi, l’aranceto e nei mesi estivi la piscina ma tutti quanti sono sembrati fare solo da sfondo lontano a delle lezioni ascoltate in modo compunto da un attento auditorio.

 

Sono venuti questi insegnanti da tutta Italia: si parlava con l’insegnante di Brescia per ascoltare poi un altro che esibiva un accento lombardo oppure siciliano mente apriva i lavori un preside brindisino dall’evocativo nome di Salvatore Giuliano (e il suo liceo collaborava all’organizzazione). Vi era il professore di Salerno o l’insegnante di Roma, vi erano i triestini ed i friulani e tutti erano assorti nel rivivere una volta di più le vicende di questo pezzo d’Italia strappato all’Italia dall’insipienza, dal desiderio di vendetta, dalla cupidigia che si insinuò allora in tutti i cuori come antico morbo. Si è subito registrato nell’aula il senso dell’Italia che riconosce se stessa senza indulgere a nessun amore verso le divisioni rintracciando d’istinto la propria splendida unità che a noi esuli appare così logica.

 

Ma corriamo presto al Seminario.

 

Toni Capuozzo ha diretto i lavori nella prima mattinata sottolineando fra l’altro la necessità di raccogliere su molti temi dell’esodo le impressioni sempre più rade dei testimoni viventi, prima appunto che essi si allontanino gradualmente nelle ombre e forse vi è spazio qui per un’iniziativa di tutti noi.

 

Dopo l’interessante saluto del sindaco Brazzoduro (del Libero Comune di Fiume) è stato ascoltato il professor Parlato di Roma che ha insistito sulla distinzione fra ideologie autoritarie e totalitarismi, cioè fra quello che è stato il fascismo e il franchismo o il nazismo e il bolscevismo per cui i primi, pur favorendo i gruppi nazionalistici ad esso più vicini, risultano inquadrare anche i gruppi meno omogenei, mentre i totalitarismi tendono ad eliminare ogni diversità. Anche nella Venezia Giulia si era registrato, almeno nel primo tempo, un certo allineamento dei sloveni autoctoni alle iniziative fasciste (Opera Balilla, dopolavori). Il che forse aveva fatto pensare a un definitivo assorbimento di tali popolazioni nel tessuto nazionale. Illusione da cui ci si doveva destare all’alba del 9 settembre 1943.

 

Particolarmente vero è poi apparso l’intervento del professor Pupo che ha fatto battere l’accento su un fatto fondamentale talora trascurato e che cioè l’Italia ha perso l’Istria (costata tanto sangue durante la Prima guerra mondiale) appunto il 9 settembre o subito dopo allorché la parte italiana della popolazione si è trovata a fare i conti con le aggressive formazioni degli slavi locali (e qualche infiltrato da oltreconfine). Che nessun servizio di informazioni aveva previsto mentre mancava ogni tipo di pianificazione difensiva e anzi le forze armate e quelle dell’ordine vennero spesso ritirate o si scioglievano venendo poi intercettate con le loro armi dagli insorti o dalle truppe tedesche.

 

Le stazioni dei Carabinieri vengono circondate e i militi sopraffatti, spesso trucidati e le formazioni slave possono esercitare in tutta tranquillità le note gravissime e sanguinose operazioni di vendetta sociale e odio nazionalistico dando inizio alla tragedia delle Foibe. Portò una parvenza d’ordine la rapida repressione tedesca ma non veniva più ristabilita la sovranità italiana se non in modo quasi virtuale nelle maggiori città e del resto essa non poteva basarsi su alcuna forza militare salvo quella di sparuti reparti che combattevano al fianco dei tedeschi.

 

Mi sembra così di poter dire, seguendo l’esposizione del prof. Pupo, che si installò una tripartitica realtà che durerà fino all’aprile del 1945: un’inerme popolazione italiana (quella slava se si escludono i possidenti più facoltosi, vedeva il suo naturale baluardo nel movimento partigiano che in quel torno di tempo accentuava, si capisce, più il momento nazionalistico che quello social-marxista). C’erano poi i tedeschi nelle loro epifanie militari e poliziesche, queste ultime presenti, si capisce, più nelle grandi città come Fiume e Trieste. Ed infine il movimento partigiano cui non nuoceva la divisione fra sloveni e croati etero-diretti da Tito ed i suoi mentre veniva ormai apertamente dichiarata la volontà di annettersi l’Istria andando anche oltre fino a Monfalcone, Gorizia e Gradisca.

 

Con la popolazione di cultura italiana completamente bloccata, perché la guerra non consentiva facili spostamenti e la ricerca di nuove fonti di sostentamento nel resto dell’Italia. La lezione di Pupo ha abbracciato anche l’Istria del dopo 1945 fino al 1958 descrivendo, come sappiamo anche troppo bene, una popolazione italiana terrorizzata dalle tattiche della polizia segreta Ozna mutuate, si capisce, da quelle sovietiche. Estraniata dalla progressiva perdita dell’identità culturale (che non fu immediata e ciò almeno fino alla firma del trattato di pace anche per puntellare in qualche modo la finzione dell’antifascismo italo-slavo) e infine, leva principale, la distruzione della base economica a cui si affidavano le famiglie.

 

È ovvio che la doppia prospettiva di perdere il contatto culturale con l’Italia e la contemporanea discesa verso una miserrima e feroce società di tipo proletario abbiano costituito uno stimolo irresistibile all’esodo e allo sfruttamento delle opzioni di cui le autorità jugoslave si avvalsero per regolare a loro piacimento il deflusso degli italiani.

 

Meno fosco di tinte è apparso ovviamente il quadro tracciato dal prof. Spazzali, proprio perché ha descritto i primi passi degli esuli verso la normalità. Spazzali ha fra l’altro illustrato la genesi del noto episodio di Bologna del 1947 (il rifiuto di rifocillare i profughi in quella stazione) che ci ha rivelato esser dovuto a volantini partiti da Monfalcone e che dipingevano i profughi, tutti i profughi, come fascisti in fuga dalle “giuste” sanzioni dello stato socialista. Suscitando quindi le ire dei ferrovieri comunisti emiliani che non ripeterono però il giorno dopo lo stesso gesto, vuoi perché assaliti da qualche dubbio oppure perché in Stazione si era presentato il Cardinale di Bologna che probabilmente voleva vedere se tali comportamenti si ripetessero.

 

Ho avuto qualche difficoltà con l’esposizione del prof. Spazzali quando ha affermato che i profughi furono distribuiti in tutta Italia per facilitare loro la ricerca di un’occupazione che nell’Italia del sud non avrebbero certo potuto ottenere, fatte salve le riserve esistenti per gli impieghi pubblici. La realtà era che il Ministero dell’Interno vuole disperdere gli esuli in tutto il Paese per evitare i raggruppamenti di forze “irredentiste” come se dopo le vicissitudini passate con la guerra, il dopoguerra e la penuria economica esse potessero ancora pensare ad un impegno politico che del resto non si materializzò neppure a Trieste.

 

L’intervento di Spazzali è stato di notevole interesse per quanto ha detto in tema di Puglia dove in un primo momento non furono inviati i profughi anche per la presenza di uffici jugoslavi variamente camuffati ma che costituivano comunque delle centrali di spionaggio. Ma che ha poi visto l’arrivo nelle principali città, ed anche ad Altamura, di vari gruppi di esuli che hanno in gran parte trovato lì un nuovo focolare.

 

Ratzenberger e Canevari (sindaco del Libero Comune di Pola) hanno parlato dei collegi Niccolò Tommaseo di Brindisi e del Fabio Filzi di Gorizia creati per consentire gli studi dei figli dei profughi. Sul Filzi, Canevari ha illustrato la sua genesi e la sua attenta organizzazione mentre chi scrive ha descritto la storia del Tommaseo, ben documentata comunque nell’apposito libro di Ennio Milanese, per soffermarmi poi sulla vita quotidiana, la sveglia, i pasti (con accenni alla penuria di cibo nei primi anni e alla poca simpatia dimostrata dagli allievi per i ceci), lo studio e la frequentazione delle scuole esistenti nel Convitto e fuori dallo stesso.

 

Ho anche sottolineato che però le due principali preoccupazioni erano “in primis” quella dello sport per cui nella virtuale classifica interna si era collocati secondo la propria bravura e aumentando la propria efficienza si faceva la più bella delle carriere. In secondo luogo l’aspirazione di tutti era la libera uscita della domenica, con quell’assaggio di emancipazione che a tutti sembrava essenziale e di cui i «muli» in modi diversi si avvalevano.

 

Cristina Benussi, professoressa universitaria a Trieste, ha affrontato il tema della letteratura dell’esodo ma forse un impatto più incisivo l’ha avuto, avvalendosi eziandio di qualche filmato, Alessandro Cuk (Anvgd di Venezia), che si è lamentato del poco cinema italiano girato sul tema del biblico nostro esodo per cui occorre certamente sperare nell’iniziativa di un grande regista. Anche se poi noi abbiamo constatato che di repente da un riposto angolo è comparsa l’incredibile pièce teatrale «Magazzino 18» di sfrontata grandezza e in cui “lo spirito che va dove vuole” si affida alla preclara arte di Cristicchi; che sa annodare tanti fili provenienti dalle tragiche storie istriane e ne fa un viluppo con una sua antica armonia e sembra comporre la lotta e l’ira.

 

Egone Ratzenberger

 

© ANVGD nazionale

 

 

Egone Ratzenberger è nato a Fiume nel 1935. Laureatosi in Scienze Politiche all’Università di Roma nel 1960 è entrato in seguito a concorso nella carriera diplomatica nel settembre 1961. Ne ha percorso le singole tappe in vari incarichi al Ministero e all’estero che nei primi anni lo ha visto soprattutto attivo nella Repubblica Federale Tedesca e in Finlandia. In seguito è stato Console Generale a Zurigo, Ambasciatore a Bogotà in Colombia dal 1984 al 1987, viceispettore Generale del Ministero e degli uffici all’estero ed infine Ambasciatore a Montevideo e a Bratislava. Ha concluso la sua carriera nel settembre 2002.

 

 

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