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Barbana, un viaggio tra passato e presente (Voce del Popolo 24 ott)

Alla fine del decimo secolo, le terre dell’Istria interne vennero infeudate ai duchi di Carinzia col titolo di “contea”. Poi, nel 1062, comparve nella storia il nuovo termine di “marca istriana”, alle dirette dipendenze della corona imperiale. Della piccola Barbana di allora, Prospero Petronio scrisse: “È posto questo castello in piano, con una Rocca in mezzo ad esso, nella quale v’è rinchiusa la Chiesa Collegiata, l’habitatione del Capitanio, del Fattore e magazzini da riporre l’entrate del patrone d’esso; che servono in occasione di guerra per la ritirata dei suoi abitanti, ritrovandosi nel rimanente mal sicuro dall’incursione dei nemici”: Più avanti prosegue: “Godono tuttavia li popoli di Barbana di due grandi prerogative: l’una d’esser sottoposti al dominio della Casa Loredana di Santo Stefano che rende fortunati questi sudditi per i vari privilegi che ricevono e per il paterno affetto; l’altra, che si trovano ad haver un bello, ampio, fruttifero e ben abitato territorio. (…) Qui si raccolgono biave d’ogni sorte e vini molti. Sono abbondanti pascoli e tien per le campagne molte abitazioni come a Castel Novo e Pontera, benissimo abitate per l’haria buona che godono…”.

La chiesa di San Nicolò e la statua

Oggi l’approccio a Barbana – tra l’altro il paese con la popolare Giostra dell’anello – presenta un interessante colpo d’occhio. Il piccolo borgo offre subito al visitatore la vista della sua possente torre quadrata, la chiesa di San Nicolò con il campanile innalzato attorno al 1700 sui resti di un altro torrione di difesa e, stupefacente, davanti l’entrata una specie di statua grezza, opera di chissà chi, quasi un feticcio per i fedeli che entrano ed escono di chiesa e che sul piedestallo porta la scritta in italiano “Santa Missione”. Il tutto incorporato entro la cinta muraria fatta dagli edifici costruiti in tempi successivi.
Due sono le porte d’ingresso, ambedue del secolo XVI, la Piccola e la Grande. Ma già prima di varcare quest’ultima si può ammirare la chiesetta di Sant’Antonio eremita, del secolo XV col suo tetto di lastre di pietra, oggi purtroppo incassata sotto il livello stradale. Sempre fuori le mura, sul bivio delle strade che portano a Dignano da una parte e a Pisino dall’altra, c’è un’altra chiesetta, quella della Madonna dei campi. Quindi dentro le mura di questo che era un castello recinto, si trovano la piazzetta attorniata da costruzioni che hanno mantenuto il loro aspetto antico, la palazzina del municipio (1555) sottostante una loggia, il palazzo dei Loredan ai quali, come abbiamo già ricordato, era stato assegnato il feudo nel Medio Evo, ancora la grande canonica, un’altra chiesetta sul lato nord, cioè quella di San Giacomo.

Il Plutarco istriano

Comunque l’abitato è anche noto agli storici, soprattutto a quelli di cose istriane, perché patria di Pietro Matteo Stankovich (1771-1852). Di questo canonico, Bernardo Benussi, nella sua opera “L’Istria nei suoi due millenni di storia” scrive: “…nella sua lunga dimora a Roma raccolse manoscritti, libri, diplomi, medaglie, consultò quante più opere gli fu possibile colle quali compose le “Biografie degli uomini illustri dell’Istria”. In quest’opera vi sono 489 biografie divise in sei capitoli. Fu detto perciò a buon diritto il “Plutarco istriano”. Ma si occupò anche di questioni agrarie e di archeologia.”

Il furbo Barba Frane

Comunque di tutto questo io da ragazzo non sapevo un bel niente. Barbana è rimasta nel mio ricordo per quel lungo viaggio che facevo con mio padre alla fine dell’inverno: attaccati i due enormi boscarin al carro, mi sedevo accanto a lui sul sentador traballante e già quello era un grande privilegio per me ancora mularia e in più potevo anche stringere in mano la scuria per incitare le bestie quando il loro andare diventava fiacco. La strada allora era ancora bianca, le ruote macinavano la ghiaia e io passavo in rassegna tutti i paesetti che incontravamo spesso con nomi per me quasi impronunciabili dato che di croato sapevo solo dire “dobro jutro”.
Da Dignano a Barbana erano diciannove chilometri, vale a dire un’intera giornata tra andata e ritorno. Si arrivava di solito davanti la Porta grande per poter poi, nell’improvvisato mercato, poter scambiare qualche piccola damigiana d’olio con i pali per sostenere le viti dei vigneti. Ma di solito, dopo parecchio contrattare, mio padre finiva col carro ancora vuoto oltre la Piccola porta nel cortile del corpulento e furbo barba Frane. Era la sua una casa al limitare del paese vicino ad un fitto bosco e col grande letamaio fumante di fianco. Qui ci attendeva sua moglie Fuma che aveva preparato la minestra di bobici. Ed io mi domandavo: ma perché si chiama Fuma se non fuma mai? E lo chiedevo a mio padre che mi rispondeva: "El xe un nome de slavi e po’ bon!”. Solo più tardi venni a sapere che Fuma equivaleva all’italiano Eufemia, la santa di Rovigno, e che era nata nientemeno che a Canfanaro.

Quanti pali per un litro d'olio?

Naturalmente le contrattazioni con barba Frane andavano per le lunghe. – Cento pali per un litro di olio. Troppo olio per cento pali. Facciamo centoventi, roba buona che quando la pianti dura un secolo! Almeno centocinquanta! Non posso, non posso, mi rovino, tutto quel pelare! – Ogni tanto si interrompevano perché seduti attorno al grande tavolo con al centro la solita bucaleta colma di vino rosso barba Frane chiedeva di questo e di quello, dei siori de Vodnjan panzoni, anche di politica voleva sapere, dei fascisti, della guerra che c’era, ed anche dei partigiani – jadni, atento Santo, atento al’ojo, scondilo co ti vien qua, vragovi su ti oni, pa anche dobri ma vragovi, e i tedeschi, ‘sti gnochi propio selvadighi, vero da, i sbara anche ai cani lori! –
Parlava con mio padre in gran segreto in quel suo dialetto che era mezzo veneto e mezzo slavo. Io me ne stavo quieto accanto al focolare, gli occhi spalancati mangiavo a rapidi bocconcini la grande fetta di pane bianco che la Fuma mi aveva regalato con sopra una abbondante sgocciolata di miele e ascoltavo le sue storie, perché lei le sapeva tutte le storie di Barbana.

La storia di Petar e la giostra dell’anello

Mi ricordo ancora la štoria di Petar che doveva essere un giovane fortissimo, perché una volta per scommessa estirpò con un solo strappo una murva, ossia un gelso. A quei tempi i Turchi avevano assalito il paese e ci fu una grande battaglia con molti morti da una parte e dall’altra, ma poi il Capitanio, veli šior, che non voleva che Barbana venisse distrutta e incendiata, decise di concludere un armistizio. Il sultano però decretò che la faccenda si sarebbe risolta con una lotta tra un cristiano e un turco perché tra i suoi armigeri aveva un gigante invincibile. Il Capitanio disperato chiese ai suoi soldati se ci fosse qualcuno capace di affrontare l’impari lotta. Si fece avanti Petar e diede prova della sua forza spezzando con una mano sola ben sette ferri di cavallo!
Quando il giorno predestinato per il duello il gigante turco che si dice avesse la testa di cane vide il cristiano, scoppiò a ridere e per scherzo, per sfida, gli porse la mano destra. Dopo averla ben stretta, Petar gliela staccò dal braccio! Il gigante urlò dal dolore e con la sinistra tentò di acchiappare l’avversario, ma questi si scansò e con la sua spada trafisse il turco che cadde morto al suolo. Allora il sultano diede ordine di assalire il vincitore cristiano. Petar, però, sradicato un altro grosso gelso dalla piazzetta, si mise a rotearlo selvaggiamente in modo che i turchi caddero come mosche, baš ko krepane muhe! Fu così che salvò Barbana e in suo onore ancor oggi si tiene la giostra dell’anello, dragi moj, la gara del prstenac…

L’oste imbrogliato

A Fuma piaceva raccontare le sue lipe besede. Aveva la bocca un po’ storta e quando rideva metteva in mostra i suoi quattro denti gialli. Rideva allegra e magari le sue storie se le inventava solo per me. Più di tutte mi piaceva quella dell’oste imbrogliato. Un giorno un tale bontempone capitò in paese e andò a fare merenda nell’unica osteria di Barbana. Ordinò tre pani, tre salsicce, tre pezzi di pecorino, tre bicchieri di vino. Quand’ebbe mangiato e bevuto, tenendo le mani sulla pancia chiamò l’oste per pagare il conto e disse:
– Tre pan, tre vin, tre luganin…
E l’oste: – … e tre de pecorin!
– Digo ben: tre de pecorin, tre de pan e tre de vin!
E di nuovo l’oste: – … e tre de luganin!
– Digo ben: tre de luganin, tre de pecorin, tre de vin!
Ancora l’oste urlando: – … e tre de pan!
Per finirla, l’oste infuriato agguantò il vagabondo, lo scaraventò fuori dell’osteria senza fargli pagare niente! Fuma concluse: – Jera propio quel ch’el selvadego voleva perché in scarsela no’l gaveva niš, a ma baš niš! Ni jedna palanca!

Il ritorno

Concluso finalmente lo scambio, dopo vigorose strette di mano tra mio padre e barba Frane, caricato il carro di bei pali già con la punta e lustri perché erano pelati della scorza così duravano di più, cinque gratis pe’l sine qua, nelle prime ore del pomeriggio si ripartiva perché i diciannove chilometri di strada bianca erano lunghi e poteva succedere di tutto in quei tempi di guerra, magari che qualcuno – fascisti o tedeschi – ci portassero via i nostri due boscarin! Per la verità io non mi preoccupavo molto. Passavamo dapprima sotto la Porta Piccola, poi sotto quella Grande, ma dopo aver sorpassato la chiesetta della Madonna dei campi di solito mi addormentavo sdraiato su un mucchio di paglia, intontito un po’ dall’odore acre dei pali e sognando gli eroi delle lipe besede che Fuma – la quale non fumava né sigarette, né sigari, né pipa – mi aveva raccontato in quella bella giornata…

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