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Arkan, un criminale eroe in patria (Il Piccolo 12 ott)

di DIEGO ZANDEL

Per le cronache della stampa internazionale e per i suoi nemici croati, bosniaci e kosovari, Željko Ražnatovic – nato nel 1952 a Brezice, in Serbia – meglio conosciuto con il soprannome di Arkan, era uno spietato guerriero, responsabile, con le sue Tigri, come si chiamavano i volontari serbi che facevano parte dei suoi battaglioni, di crimini di guerra, per aver ucciso, nel corso della guerra interetnica nella ex Jugoslavia, civili, donne e bambini.

Ma in patria Arkan è considerato un eroe. Ucciso il 15 gennaio 2000 da un killer rimasto sconosciuto, che ha agito con sorpresa e l’aiuto di alcuni complici dileguatisi nei pochi minuti in cui si è svolto l’attentato, ai suoi funerali hanno partecipato migliaia di persone e, tutt’oggi, la sua tomba è meta di pellegrinaggio dei suoi tanti fan.

Ma chi era in realtà Željko Ražnatovic? Una risposta, figlia di una coraggiosa ricerca sul campo, ricca di testimonianze, l’ha voluta dare il giornalista americano Christopher S. Stewart con il libro “Arkan, la tigre dei Balcani”, edito da Alet (pagg. 379, euro 19,00), molto interessante e documentato (solo un dubbio nella traduzione di una parola originariamente slava, là dove il socio di un giovane Arkan, gli dice che in Italia “le donne sono tutte curve”, tradotto così letteralmente dall’inglese, mentre in serbo-croato la parola ”kurva” vuol dire ”puttana”).

Innanzitutto, Arkan era figlio di un ufficiale dell’esercito jugoslavo, educato con durezza, ma ben presto liberatosi dalle grinfie del padre e, giovanissimo, datosi ai viaggi un po’ dovunque in Europa.

Bello, con il volto sempre rimasto molto giovanile, sempre sbarbato, affascinante, conosceva perfettamente quattro lingue, tra cui l’italiano. E a Roma visse un paio di anni, tra il 1967 e gli anni Settanta (poi Inghilterra, Olanda, Germania, Svezia, Canada) dando avvio a un’attività criminale (borseggi, rapine di case, banche, gioiellerie) che gli consentivano una vita lussuosa.

A 26 anni era già un boss, alla guida di una Cadillac rosa, vestito di completi sgargianti, Rolex d’oro al polso e un revolver di grosso calibro ben in vista.

Ciò nonostante era diverso dagli altri criminali che se la passavano gozzovigliando. Arkan era un uomo di una straordinaria autodisciplina. Si allenava metodicamente tutti i giorni, non fumava, non beveva alcol né assumeva altre droghe. Ci teneva ad essere sempre in salute, lucido e pronto in ogni momento. E non c’era da scherzare sul suo stile di vita: chi ci provava a ridire sul fatto che lui bevesse succhi di frutta al posto del whisky trovava un canna di revolver e una risposta pronta: “Problemi?”. C’è da aggiungere a riguardo che, quando, dopo diversi anni, trascorsi tra rapine, soprattutto in Svezia, dove avrebbe fatto anche un figlio con la prima moglie svedese (ne avrebbe avute altre due e sette figli), questa religione salutista e l’imposizione del volto sempre sbarbato l’avrebbe pretesa anche dai suoi uomini, che – se trovati a bere – venivano ferocemente puniti. Anche quando vide per la prima volta, poi innamorandosene, la sua terza moglie, la rockstar serba Ceca (al secolo Svetlana Velickovic), si
mise subito a controllare gli avambracci per accertarsi che non si bucasse.

La sua carriera criminale si avvaleva anche di molte protezioni politiche. Un po’ a ragione del padre, il colonnello Veliko Ražnatovic, e molto perché i servizi segreti jugoslavi avevano trovato in lui uno al quale potersi rivolgere per i cosiddetti lavori sporchi, soprattutto killeraggi.

Entriamo in un epoca, dopo la morte di Tito, che i vari nazionalismi all’interno della ex Jugoslavia, della quale i serbi erano il popolo più numeroso e potente, alzano la testa.

In Croazia riprendono forza gli ustascia e il terrorismo prende a diffondersi, attentati vari presso le ambasciate all’estero e quant’altro. Ecco quindi la necessità di rimettere ordine. E Arkan è congeniale alle più estreme misure di sicurezza, in stretto collegamento con i vertici dei servizi segreti. Ciò favorirà il suo ritorno a Belgrado, dove passa alla testa dei tifosi della squadra di calcio Stella Rossa di Belgrado. Con 3000 di essi Arkan arriverà a Zagabria per la partita di campionato jugoslavo Dinamo Zagreb e Stella Rossa: la partita finirà in una mischia di pubblico e giocatori in mezzo al campo, con poliziotti divisi secondo l’appartenenza etnica, in maggioranza serbi: in un filmato del tempo, e siamo già nel maggio 1990, si vede il giocatore Zvonimir Boban, allora della Dinamo Zagreb, prima di fare carriera al Milan, sferrare un calcio a un poliziotto che, nella rissa generale, se la prendeva con i tifosi croati. Alla fine i feriti furono un centinaio.

Ma era solo l’inizio. Un anno dopo sarebbe scoppiata la guerra vera e propria. Arkan avrebbe formato le sue truppe, le famigerate Tigri, tutti tifosi della Stella Rossa, da lui contattati personalmente uno ad uno, che avrebbero attraversato i Balcani in fiamme. Ad essi sarebbero stati imputati circa 2000 omicidi.

Arkan, di fronte alle accuse che gli sarebbero piovute addosso dal Tribunale dell’Aia per i crimini di guerra, avrebbe sempre negato che fossero frutto di azioni diverse da comuni operazioni di guerra.

È certo che, dopo, anche per gli arricchimenti e il potere che la guerra gli aveva portato, la sua figura, a Belgrado, era diventata troppo ingombrante. Qualcuno, così, ha provveduto a toglierlo di mezzo.

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