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Andretti: una vita spericolata in dialetto (Il Piccolo 10 feb)

di NEREO BALANZIN

Nazareth, Pennsylvania. «Davvero: per noi, gli Usa sono stati la terra promessa. Pensa che qui vicino c’è anche Betlemme…». Con una voce che sa un po' di fumo, un po' di barba, Mario Andretti mette le mani avanti: «Parlaremo un poco italiano, un poco dialeto. Va ben?»

L’ESODO. 1954: burrasca; quando il «Conte Biancamano», salpato da Genova aveva attraccato a New York, Mario non ne poteva più dell’Atlantico. Con lui Aldo, il gemello; Alvise, il padre. Rina, la madre. Ed Anna Maria, la sorella. Sulla banchina si sbracciava zio Toni («Dai, vegnì anca voi altri in America»). Mario era entrato negli Stati Uniti ragazzo; sarebbe diventato, da uomo, uno dei piloti più famosi del mondo.

Sette anni prima, nel 1948, a otto anni, aveva abbandonato Montona, Istria, in una giornata di pioggia battente. Bagnati i mobili accatastati sul camion. Fradici i capelli della gente. «Piangevano tutti. Si trattava di scegliere: o rinunciare ad essere italiani, oppure all'Istria». Per non dire no all'Italia, gli Andretti erano emigrati in America, dopo il campo profughi.

GLI INIZI. A Montona, Mario era tornato dopo aver iniziato a correre, costruendo la prima vettura con le proprie mani, assieme ad Aldo. Dopo aver iniziato a vincere. Dopo che suo padre, per un bel po', non aveva capito: parlava inglese a malapena, e credeva che le pacche sulle spalle da parte dei compagni di lavoro fossero complimenti per il suo darsi da fare in azienda, e non per le imprese dei figli. Aveva compreso solo dopo che Aldo si era quasi ammazzato in una carambola. Picchettava il letto del figlio in coma, mormorando: «Almeno, avrà capito». Ed era diventato matto, quando Aldo, appena tornato a casa, si era invece rimesso a trafficare con Mario per costruire una nuova vettura, ancora più veloce.

IL RITORNO. Mario: «Sono tornato a Montona per la prima volta nel 1966, dopo la 24 Ore di Le Mans. Alla frontiera, ho trovato i titini con la stella rossa sul berretto: no te digo». Nel 1988 è riuscito a trascinare anche il padre: «Da piazza Andrea Antico, guardava campi un tempo suoi. Aveva un groppo alla gola; però era orgoglioso di ciò che avevamo ottenuto, nonostante quello che avevamo lasciato». Ossia, un po' di ettari e la trattoria “Alla stazione”, che era stata di sua nonna, e dove sua mamma, bambina, aveva imparato a cucinare. «Da lei, mia figlia Barbara ha ereditato un quadernino di ricette. Così, a Nazareth mangiamo le seppie nere, e gli gnocchi con il sugo di carne. A Pasqua, pan di Spagna. A Natale, frittole».

I figli di Mario ed Aldo hanno nomi yankee: Michel, Jeff, John. Tra i nipoti, invece, nomi italiani. A volte, storpiati: Marisa è diventata Marissa («cossa te vol: qui lo scrivono così, con la doppia s») e Lucca ha due «c»: «Non per errore; per ricordare la città». Il secondo campo profughi, dove Mario aveva imparato un po' di inglese. Perfezionato poi in Usa con una insegnante più o meno della sua stessa età: Dee Ann. Lei gli insegnava i verbi, lui le aveva chiesto di sposarla. Fatto, nel 1961.

«La prima auto che mi abbia fatto battere il cuore, l'ho vista a Montona. Era una estate secca; tutto era polvere. Ma quella brillava, lucida. Credo una Ford. Mi ci immaginavo quando, con Aldo, su un carrettino, ci buttavamo giù per la stradina che da San Cipriano precipitava verso il basso, rischiando di travolgere le vecchiette che arrancavano in salita. Si lamentavano con mio zio parroco: i xe fioi, diceva lui, allargando le braccia. Che i vadi. Perché avessimo il pallino della meccanica, non lo so. Un febbraio, e si avvicinava il nostro compleanno, abbiamo capito che il regalo sarebbe stato speciale. Abbiamo pensato: una bicicletta. Era un cavallo. Bello: ma noi volevamo altro. Sospirando, guardavamo zio Bruno inforcare la moto, calare sul naso gli occhialoni, e partire dando gas…».

LA CASA. La casa degli Andretti è ancora in piedi. Sul muro, una scritta ricorda che lì è nato Mario. Diventato poi «piedone», per quella sua tattica di gara molto semplice: «acceleratore a tavoletta, e vediamo come butta». Ha buttato bene: campione del mondo di F.1, quattro titoli Cart. Indianapolis, Daytona, Ferrari. Commendatore in Italia, «pilota del Secolo» negli Stati Uniti.

«Un giorno, ho bussato alla porta di quella casa. Nessuna risposta. Ho spinto il battente; si è aperto. C'erano quattro persone sedute ad un tavolo. Una famiglia, credo. Ci siamo guardati; non ci siamo detti nulla. Chi sono? pensavo. Chi li ha messi qui? Ospiti, per quanto mi riguardava. Non che ce l'avessi con loro: avranno avuto i loro problemi. Ho chiesto ad un amico, Mariano, che viveva lì, di informarsi. Pensavo: magari, la compero. Ha consultato gli incartamenti: cinque persone, dico cinque, di cui nemmeno una mi era nota, vantavano diritti di proprietà. Mi è venuto un nervoso…».

IL VINO. Sull’altra riva del fiume Quieto, a Levade, un ristorante vende il vino che Mario produce a Nappa Valley, in California. «Un Merlot, etichettato Montona rosso. Ed uno Chardonnay, battezzato Montona bianco». Mario possiede anche stazioni di servizio, concessionarie d'auto, un circuito di kart, una linea di vestiario e produce «cosmetici per automobili».

«Ho portato a Montona figli e nipoti. Perché vedessero da dove veniamo. Io, ogni volta, provo lo stesso sentimento: mi pare di afferrare qualcosa, di trovare uno scopo, in quella terra a cui i miei erano così attaccati. Se voglio indicare agli amici Montona, in internet ormai trovo solo Motovun. Ma sul mio passaporto c'è ancora scritto: Montona, Italia».

I mobili?

«Mai più visti».

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