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Amori e segreti di Biagio Marin all’asta (Il Piccolo 17 ott)

di RENZO SANSON

«Xe destin de brusâ,/ de vive ardendo (È destino di bruciare, di vivere ardendo)». In questi versi in dialetto gradese composti dall’ottantasettenne Biagio Marin nel 1978 si può riassumere la vita di un poeta tra i maggiori del Novecento. A 24 anni dalla sua morte, le ”braci” di un’esistenza lunga e travagliata, una fioritura ininterrotta al tempo stesso poetica e prosaica («son femena e creatura» diceva, simbiosi di generante e generato), ardono ancora nel ”Canzoniere” (1912-1985) di Marin, nei suoi Diari, negli epistolari e nei tanti scritti ancora inediti.
Nell’agosto scorso la figlia Gioiella Englen Marin – che vive a Roma e il primo ottobre ha compiuto 94 anni – ha donato all’Università di Trieste nove lettere inedite inviate dal giovane Biaséto alla nonna Antonia (che lo chiamava affettuosamente "cavo de nembo", per il suo carattere tempestoso), al padre Antonio e al fratello Giacomo, tra il 1908 e il 1911, quando era studente, prima a Pisino e poi a Firenze. Queste lettere saranno pubblicate entro l’anno dal Dipartimento di Italianistica, diretto da Rienzo Pellegrini. Ed Elvio Guagnini, profondo conoscitore dell’opera mariniana, annuncia che è pronto per le stampe anche il secondo volume dei ”Diari”.
Ma non è tutto. Fra una settimana, il 27 ottobre a Roma, saranno battuti all’asta da Bloomsbury altri inediti mariniani di grande interesse: un taccuino marrone del 1912 e un volumetto ”A Gesky” del 1913-’14, quando il giovane gradese frequentava la Facoltà di Filosofia dell’Università di Vienna, un taccuino verde del 1918-’19 (firmato Biagio Marano) e un quaderno di 73 pagine intitolato ”Appunti biografici di Biagio Marin”, che risale agli anni 1968-1972. Il tutto valutato attorno ai 50 mila euro. L’Università di Trieste è intenzionata ad acquisire i manoscritti.
L’interesse quasi ”morboso” (Marin fa gola persino ai collezionisti americani) per l’asta imminente, mette per ora in secondo piano le lettere familiari donate alla città di Trieste, di cui si parlerà quando il nuovo ”caso Marin” si sarà, ci auguriamo, felicemente risolto.
Qual è il contenuto dei manoscritti ritrovati? Lo si apprende dal catalogo scritto da Fabio Bertòlo, di cui il sito della Bloomsbury propone estratti e citazioni, da cui emerge un ritratto a tutto tondo di Marin, che mette a nudo la sua anima, la sua sensualità e la sua brama di vivere.

VIENNA 1912

Il lotto n. 11 propone due testimonianze personali e letterarie della primissima stagione mariniana: un quaderno di appunti autografi su fogli a quadretti, matita e penna, datato Vienna dicembre 1912, che si apre con uno schizzo dei Casoni della laguna di Grado e alterna descrizioni memorialistiche (come questa del 28 giugno 1912 dedicata alla futura moglie: «Pina, ho lasciato or ora mio padre, e sono solo; è la sera del 16, il giorno della leva. Pina: soldato austriaco! Ho giurato… e m’hanno detto che quel giuramento è sacro») a testi poetici, non solo in dialetto, mentre il secondo bloc notes – in copertina la firma, Marano Biagio – contiene 20 pagine fitte di poesie, spesso abbozzate (come ”El faro”, poi pubblicata nel 1922 in ”La girlanda de gno suore»), databili tra il 9 ottobre 1918 e il 27 novembre 1919, oltre alla trascrizione di due discorsi su Mazzini, tenuti all’Istituto Magistrale di Gorizia.

IL LIBRO DI GESKY

«Sognare, amare, poetare, infrangere cuori e anime, selvaggiamente come un torrente alpino allo sciogliersi delle nevi».
”Il libro di Gesky” è un taccuino dalla copertina verde muschio che risale agli anni (1913-’14) in cui Marin – che ha appena pubblicato, nel 1912, la sua prima raccolta di poesie in dialetto gradese ”Fiuri de tapo” – frequenta la Facoltà di filosofia dell’Università di Vienna.
Questo straordinario diario intimo, vergato in minuta scrittura corsiva racconta la vita viennese, le aspettative e i tormenti del giovane Marin, che legge Ibsen e Baudelaire e ricorda con nostalgia il sole di Grado e le stanze luminose di ”Villa Matilde”. Inizia così: «Qui comincia il libro di Gesky; di Gesky perchè lo scriverò pensando a lei, per lei. Sarà invece il libro dell’anima mia. Noi uomini – scrive il ventiduenne Biaséto, – non osiamo denudare l’anima nostra. Io lo voglio fare per Gesky, perchè un dì che sia, ella sappia cosa è una anima, intravegga quanto male ci travaglia, impari ad amare l’uomo (non il maschio) qual è veramente. Se tu sapessi che impressione strana provo dinanzi a questa carta bianca! Vedi, temo di dire più bugie di quello che non vorrei. Scriverò tante bestialità dovute alla mia presunzione, alla mia ignoranza, alla confusione provocata da idee mal digerite. Sono un ciarlatano, Gesky, uno stupidissimo ciarlatano».
Pensando alla piccola Gesky (ma ”scrivo per me”, aggiunge subito) conosciuta a Grado, Marin si analizza con amaro feroce sarcasmo: «Io sono l’esteta sensuale, io sono una strana miscela di mistico e di pagano, io sono assetato di bellezza, e il male ne ha tanta». E aggiunge: «Faccio il morale e sono amorale, passo per intelligente e lo sono così poco, faccio il platonico e sono sensuale in modo incredibile… Vedi, Gesky, sono un impasto di buono e cattivo».

APPUNTI AUTOBIOGRAFICI

Il lotto 9 – forse quello destinato a fare più scalpore – è un grande quaderno in tela blu: ”Appunti autobiografici di Biagio Marin”. Marin inizia a scriverlo nel luglio del 1968, quando ha ormai 79 anni. In una settantina di pagine racconta la sua vita, i suoi ricordi d’infanzia, le scuole frequentate prima a Gorizia e poi Pisino, gli incontri legati soprattutto agli anni fiorentini e al circolo dei ”vociani” (da Slataper a Soffici, da Papini a Salvemini, da Amendola a Prezzolini) e poi gli anni viennesi alla vigilia della prima guerra mondiale… Nel ’68 Marin ha già pubblicato varie raccolte di versi, ha ottenuto riconoscimenti (il Premio Cittadella nel 1961, il Premio Urbino nel ’64, il prestigioso Bagutta nel ’65, il Moretti d’Oro nel ’68) e sta preparando con Stelio Crise il primo volume dei ”Canti de l’Isola” (Edizioni Cassa di Risparmio di Trieste).
Marin descrive in particolare l’incontro con Giuseppe Prezzolini nel 1911 e l’amicizia e la corrispondenza che ne seguirono nei decenni successivi. E il 27 ottobre a Roma andranno all’asta – assai ambite – anche 53 lettere scritte da Prezzolini a Marin fra il 1954 e il 1972 (oltre a un manoscritto del 1916 di Dino Campana, dodici lettere di Aldo Palazzeschi, uno scherzo poetico di Gabriele D’Annunzio e un dattiloscritto di ”Scorciatoie” di Umberto Saba).

L'INCONTRO CON RITA

Tornando a Marin, con un salto cronologico, la seconda metà dell’autobiografia diventa un diario intimo di una passione: ”L’incontro con la Rita”. È Margherita Pasiani di Ronchi dei Legionari, la ”Ro” di tante sue liriche, conosciuta nella primavera del 1942 – lei aveva poco più di vent’anni, lui cinquantuno – quando il Provveditorato agli studi di Trieste gli affidò l'incarico di tenere a Monfalcone un corso di lezioni di pedagogia alle maestre elementari di quel distretto, che dovevano prepararsi a un concorso per esami, per entrare in ruolo.
«Mi resi conto che quella figliola era fascinosa non solo fisicamente, ma anche come carattere e intelligenza. La Rita, un giorno mi invitò ad andare a casa sua a Ronchi. Era una casetta da regina dei sette nani, piccola, povera, quasi a ridosso al terrapieno della ferrovia, vicinissima alla stazione nord di Ronchi. Un breve tratto di terreno – un ghiaione – era stato piantato a viti e a meli. A ridosso della casa, una conigliera e un pollaio. Venni accolto con molta cordialità e semplicità. A mia volta invitai la Rita a venire a Trieste in casa mia. Allora abitavo in via Donadoni, e tutte le domeniche la Rita arrivava da Ronchi, sempre recando la luce della sua giovinezza, fiori e, poichè c'era la guerra e noi si era poveri, la Rita ci porgeva con infinita grazia, vuoi una boccetta d'olio, vuoi due uova, vuoi del pane fatto in casa. E sempre, quando era la stagione, anche dei fiori. Quanti fiori e quanta gioia m'ha portato quella creatura. Nel '42 io avevo 51 anni, la mia funzione paterna era quasi terminata, e via via io mi attaccai alla gioia che mi dava quella creatura. Le ero ancora più padre e fratello maggiore che amico e amante, ma con gli anni il nostro rapporto divenne amoroso. Prima di cedere, lei tentò un diversivo con un ragazzo, ma abituata ormai a me, quel ragazzo l'aveva delusa, perchè era senza anima e senza cultura. Ma ancora tutti e due, consapevoli di ciò che era in gioco, si resisteva. Lei diventava sempre più bella e fulgente di grazia. Nulla in lei di banale, nulla di meschino. Era una grande signora. E dopo tanti solenni "no" – Rita era ed è molto nobile ed era consapevole della sua responsabilità – ci riconoscemmo in un'unica realtà d'amore».
«Quella realtà – scrive Marin – durò 26 anni. Pina ne soffriva molto. Io, a dire il vero, credevo che lei fosse in chiaro sul carattere amoroso di quel mio rapporto con la Rita. Che era molto discreto e, in via di massima, si limitava a uno scambio di lettere e a una visita della Rita la domenica pomeriggio, sempre in presenza di Pina. Baciavo la Rita quando entrava, la baciavo quando usciva. Una disciplina a volte dolorosa, ci impediva qualunque atto, qualunque parola che potesse turbare Pinola. La Rita voleva a Pina e alle mie figliole, un bene vivo, profondo. La considerava la sua famiglia. So bene che questo può scandalizzare tutte le persone che vivono nella tradizione matrimoniale cristiana, ma io ero per istinto profondo un poligamo. E rapporti amorosi, strictu sensu con Pina, quando conobbi la Rita, non ne avevo più da almeno 15 anni. Eppure io non solo avevo voluto bene a Pina, ma l'avevo molto amata. Tra me e lei, sorse presto, troppo presto, la barriera dei figli. Pina era innanzi a tutto madre e non sapeva essere e madre e amante, e in lei il bisogno amoroso s'era convertito totalmente in amore materno. Anche verso di me. E infatti Falco, il nostro figliolo, le diceva: il babbo è il tuo figlio maggiore. In complesso la mia vita si svolgeva su due piani, quello familiare e quello amoroso. Ma senza dramma, senza rotture».

LA SVOLTA

Ma un giorno, per caso, la moglie trova una lettera di Rita e la legge. «Ne ebbe un grave attacco di cuore. Superata la crisi, mi parlò duramente, senza però inveire, neanche con una sola parola contro la Rita. E mi disse: se vuoi andare con lei, sei libero di farlo. Devi scegliere! Risposi subito: non ho da scegliere: in ogni caso resto con te. E allora Pina mi disse: bada che, in casa mia non la voglio più vedere!».
«Rita allora si buttò tra le braccia di un uomo che era stato suo compagno di scuola e, che a suo tempo, amandola, l'aveva chiesta in moglie». Marin sbotta sul diario: «Divenni furiosamente geloso. Stavo per perdere la testa e pensavo che avrei dovuto impedire il suo sacrilegio a colpi di pistola… Di quà un travaglio che fino ad oggi 18 febbraio 1970 non è ancora finito».
Il rapporto di Biaséto con ”Ro” continua in forma epistolare. Le manda sue poesie inedite e le nuove raccolte pubblicate («la tua voce più vera, più fonda» lo ringrazia Rita). E il poeta spesso trascrive sul suo quaderno le lettere di lei che riceve, talvolta sottolineandole con dei NB (Nota bene) o inserendo dei commenti in inchiostro rosso. «Sarò forte, e cercherò di essere anche serena, anche se tutta la vita ora cambia e viene la sera, e, dentro, il dolore. Ma dentro c’è sempre il mio amore meraviglioso che nulla e nessuno potrà mai togliermi, neppure turbare. È alto, splendido, ricco. Potrei vivere il resto della mia vita in una cella, sempre nutrendomi della sua luce, maturando nella sua lunga complessa storia. Sì, esso è ormai una realtà tutta interiore, anche se Pina, disgraziatamente, ha visto tutto altro… Pina voleva sapere, a ogni costo. È lei in questo momento la più colpita. Sta con lei, aiutala! Sarò anche io più serena quando saprò che fra voi sarà ristabilito un certo equilibrio».
Un ”tradimento” di cui nessuno dei due si sente colpevole: «Mi dispiace di averle fatto del male, di saperla in quello stato – scrive Rita, – ma non posso rimproverarmi di aver voluto più bene a te che a lei. (”Santo Dio, quanta dignità in questa creatura!” commenta Marin). Ma neanche tu sei colpevole. E, se vuoi, poichè il dramma coinvolge tre persone, tutti e tre lo siamo, nel senso che tutti e tre siamo artefici, più o meno consapevoli, di una storia che però è vita con il suo bene e il suo male».
Alla moglie, morta nel 1979, il poeta dedicherà i tre volumi dei ”Canti de l’Isola”: «A Pina Marini, che mi fu per 67 anni compagna amorosa, la cui nobiltà ha sempre sanato l’anima mia». E in questo quaderno inedito conclude: «Pina e la Rita sono state i due veri poli della mia vita. Pina, la madre, mi ha dato la famiglia, la casa e i figli; Rita la gioia della libertà amorosa, la gioia della ispirazione continua».
A Grado il 21 giugno 1970 l’ultima immagine di ”Ro”, che scrive all’amato: «Sono passata davanti alla tua casa. Il giardino, la porta aperta, la scala che conduce alle belle stanze, davanti al mare. Fuori, sulla panchina, tu e Pina: tutto un mondo perduto per me». Pochi giorni dopo, tramite Augusto Zuberti, gli restituisce un pacchetto con le poesie che lui le ha inviato, e un ultimo dono: "un pettine giallo caldo".
”Quanto più moro, tanto più de la vita n’inamoro”, scrisse Marin, il quale – ci ricorda Claudio Magris – «per amore ha molto preso, ma assai più si è dato».

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