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Alle radici dell’odio che incendiò Trieste (ilgiornale.it 12 lug)

di Francesco Perfetti

Il 13 luglio 1920, le tensioni tra italiani e slavi giunsero al culmine con la distruzione della Casa del popolo slovena. Il concerto dell’Amicizia e le commemorazioni di domani non devono però cancellare, per buonismo, la realtà dei fatti

Intende probabilmente assumere, nelle intenzioni degli organizzatori, un valore altamente simbolico (e, quindi, politico) la partecipazione, a Trieste, al grande «concerto dell’amicizia» diretto da Riccardo Muti con l’orchestra Luigi Cherubini composta da 600 giovani, di ben tre presidenti della Repubblica: Giorgio Napolitano per l’Italia, Danilo Türk per la Slovenia, Ivo Josipovic per la Croazia. È nella scelta stessa della data del concerto, il 13 luglio, la dimensione simbolica dell’avvenimento. Proprio a Trieste, infatti, il 13 luglio 1920, esattamente novanta anni or sono, scoppiarono gravissimi incidenti culminati con l’incendio dell’Hotel Balkan, dove aveva sede la società Narodni dom, cioè la «casa del popolo» slovena, una sorta di organismo rappresentativo delle più significative organizzazioni degli sloveni triestini.

Quell’episodio è passato, poi, alla storia come una specie di «battesimo del fuoco» dello squadrismo fascista, ma in realtà esso si inserisce come momento, se non terminale, certo assai significativo, in una lunga vicenda che, nell’immediato primo dopoguerra – mentre sullo sfondo politico internazionale si svolgevano le trattative alla Conferenza per la pace e si consumava l’avventura fiumana di Gabriele D’Annunzio e dei suoi legionari -, vide le popolazioni italiane della Dalmazia jugoslava costrette a pagare un altissimo prezzo per la rivalità politica italo-jugoslava in termini di vessazioni, soprusi e manifestazioni xenofobe anti-italiane.

È una circostanza, questa, che – pur in un clima di “buonismo” politico e a distanza di tanti decenni dai fatti – merita comunque di essere ricordata e sottolineata perché la memoria storica non può e non deve essere mai messa in ombra a favore di una diffusa tendenza a confondere il giusto desiderio di una ritrovata capacità di convivenza civile con il riconoscimento o con l’ammissione di colpe e responsabilità attraverso gesti o rituali simbolici.

Chi volesse conoscere in dettaglio le vicende, politiche e umane, della minoranza italiana in Dalmazia all’indomani della fine del primo conflitto mondiale e della dissoluzione dell’Impero asburgico, potrà ricorrere alla lettura delle dense, documentate ed equilibrate pagine che lo storico Luciano Monzali ha dedicato a questo argomento in numerosi lavori e, in particolare, al volume Italiani di Dalmazia 1914-1924 pubblicato qualche anno fa dalla casa editrice Le Lettere. Vi troverà ricostruita la politica estera italiana nell’Adriatico e nei Balcani, e ben illustrata la sua influenza sul futuro delle popolazioni dalmate italiane, in un primo momento illuse sulla possibilità di una unione con la madrepatria, e, poi, dopo la stipula del trattato di Rapallo del novembre 1920, costrette a operare una scelta drammatica tra una vita difficile nel Regno jugoslavo e la sopravvivenza a Zara italiana, ovvero l’emigrazione nella penisola. Vi troverà, ancora, le premesse di quegli scontri fra italiani e slavi dei quali gli incidenti di Trieste del luglio 1920 rappresentarono un picco.

È bene ricordare subito – anche ai fini dell’accertamento storico delle responsabilità – che i fatti di Trieste ebbero un diretto antefatto negli incidenti di Spalato di due giorni prima. In questa città la tensione covava da tempo e le violenze anti-italiane, frutto della propaganda xenofoba del governo di Belgrado, erano tutt’altro che rare: il 27 gennaio 1920, per esempio, al termine di una manifestazione nazionalista jugoslava di protesta contro il preteso imperialismo italiano, erano state fatte oggetto di atti vandalici e teppistici molte istituzioni italiane come il Gabinetto di Lettura, le sedi della Società Operaia e del Consorzio di consumo e molti negozi.

Qualche mese dopo, l’11 luglio, però, incidenti di gran lunga più gravi coinvolsero marinai e ufficiali italiani, da una parte, e dimostranti jugoslavi, dall’altra. Quel giorno, al termine di una conferenza anti-italiana, i dimostranti si diressero verso i luoghi di ritrovo degli italiani, tra i quali il Gabinetto di Lettura. Qui, due ufficiali italiani furono costretti ad asserragliarsi. Il comandante della nave Puglia, impegnata a Spalato a garanzia delle clausole armistiziali, Tommaso Gulli, decise di recarsi a recuperarli. Lo scoppio di una bomba a mano tra la folla innescò una sparatoria fra gendarmi jugoslavi e marinai italiani. Rimase ucciso il motorista Aldo Rossi e furono feriti gravemente il cannoniere Pavone e il comandante Gulli, morto il giorno successivo dopo una operazione chirurgica. Una inchiesta immediatamente predisposta dal Ministero della Marina, riassunta in un telegramma, conservato nell’Archivio Storico del Mae (Ministero affari esteri), indirizzato dall’allora Segretario Generale del
Ministero degli Esteri Salvatore Contarini alla R. Legazione di Belgrado, mostrava senza possibilità di equivoco che «militari armati serbi» avevano colpito militari italiani e avevano «eccitato la folla contro di essi».

Come conseguenza diretta dei disordini costati la vita a Gulli, il 13 luglio scoppiarono tumulti antislavi in diverse località: Trieste, Fiume, Zara, Pola e Pisino. A Trieste, in particolare, la notizia suscitò emozione e in molte finestre vennero esposti tricolori abbrunati. I fascisti guidati da Francesco Giunta organizzarono un comizio nel corso della quale fu accoltellato un giovane italiano. L’assassinio dette il via a disordini contro negozi gestiti da sloveni e sedi di organizzazioni slave e socialiste. I dimostranti raggiunsero il Narodni dom circondato da 400 soldati e guardie regie. Dall’edificio furono lanciate bombe a mano e sparati colpi di fucile. Fu ucciso un sottotenente del Regio Esercito e rimasero ferite diverse persone. I militari risposero al fuoco e divampò l’incendio, che distrusse l’edificio.

La dinamica degli incidenti è ricostruita in un fonogramma di Crispo Moncada inviato al Presidente del Consiglio il 14 luglio, conservato negli Archivi del Mae. Vi si legge: «… Iniziatasi con comizio in Piazza Unità manifestazione svolgevasi ordinatamente. Mentre parlava avv. Giunta… rimaneva ucciso cittadino italiano da colpo di pugnale infertogli proditoriamente nella piazza stessa da slavo che riuscì a dileguarsi. Notizia comunicata al pubblico da oratore produsse vivissimo fermento ed esasperazione. Folla eccitatissima sbandossi improvvisamente in varie direzioni. Parte dimostranti si diresse correndo piazza Oberdan sostando dinanzi al fabbricato Hotel Balkan sede del Circolo slavo consueto centro di riunione e di propaganda antiitaliana emettendo grida ostili. Dalle finestre di detto fabbricato vennero esplosi vari colpi di rivoltella e lanciate bombe a mano rimanendo ferite due guardie regie e vicecommissario di pubblica sicurezza…». Il rapporto prosegue raccontando la reazione dei militari, l’incendio appiccato dai dimostranti e che non fu possibile, poi, contenere perché all’interno dell’edificio erano custoditi esplosivi come si evince dallo stesso rapporto: «… durante incendio furono sentiti alcuni scoppi attribuiti a bombe e munizioni che hanno ostacolato opera spegnimento…». Infine il rapporto elenca le altre azioni poste in essere dai dimostranti contro la tipografia che stampava un giornale jugoslavo, contro alcune abitazioni e qualche ufficio slavo, ma sottolinea anche le centinaia di «arresti di facinorosi» e le misure adottate per evitare che la situazione degenerasse e il bilancio di morti e feriti si aggravasse.

La retorica, fascista prima e antifascista poi, ha attribuito agli incidenti di Trieste significati, in positivo o in negativo, ben diversi da quelle che nella realtà avevano. Quegli incidenti, infatti, lungi dall’essere il simbolo del nascente squadrismo fascista – altrimenti, si potrebbero porre sullo stesso piano, quale espressione di un altro nascente squadrismo di segno contrario, quelli di Spalato – erano il risultato della drammatica condizione nella quale si erano trovati a vivere gli italiani di Dalmazia.

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