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30 nov – Trieste: al via il primo Museo dell’Esodo

Non chiamatela «foiba», né rappresentazione di una foiba. È un «memoriale», questo monolite sospeso e proteso verso la luce, che vuol far ricordare e rivivere fatti dolorosi. Qui non c’è un avvenimento storico da fermare nel tempo, ma uno strappo, un’interruzione traumatica, una lacerazione da condividere con chi ci passerà davanti. Non solo morti da onorare, come lassù a Basovizza, bensì case lasciate, cimiteri abbandonati, affetti cancellati, domesticità distrutte. Il «memoriale», la stele alta 9 metri che attraversa tutti i quattro piani del nuovo Museo della civiltà istriana, fiumana e dalmata di via Torino, è stato ideato e realizzato da Livio Schiozzi, proprio come il monumento alla foiba di Basovizza. È lo spazio riservato al fluire dei sentimenti, in quello che sarà il primo, e per ora unico, museo del mondo dedicato all’esodo.

Colpisce questo obelisco spezzato, che sembra fluttuare nell’aria, contro una parete di pietre dipinte anch’esse di blu. Una macchia di colore, in uno spazio circolare che interrompe, ma con delicatezza, le pareti bianche delle lunghissime sale espositive, i corridoi, gli uffici, le soffitte dove tra qualche mese troveranno posto documenti, fotografie, oggetti, testimonianze di un mondo che non c’è più.

Ci si aspetterebbe il nero del lutto e della morte, invece Schiozzi ha scelto il blu che rappresenta la malinconia e l’emotività, il colore che per Kandinskij richiamava la spiritualità e per Picasso la tristezza intrinseca alla vita, il colore in cui affonda le radici il blues, musica della nostalgia e degli abbandoni.

Sono tanti i significati che si intrecciano intorno a questa stele blu recisa, illuminata da dietro, su cui si rovescerà la luce naturale da un grande vetro smerigliato che chiude il cavedio sul soffitto del quarto piano. Ai suoi piedi, appoggiata su un mucchio di pietre, una ruota inerte, una macina che non lavora più e che rappresenta l’abbandono della vita, con un’ispirazione colta, alla «Melanconia 1» di Albrecht Dürer. «Ho messo insieme poche, semplici e simboliche forme pure per creare una vera e propria ”concrezione della memoria”», dice Schiozzi. «È un piccolo ”colpo di teatro”, un memoriale che vogliamo attragga e coinvolga chi attraversa il museo. Giochiamo sui contrasti. Un monolite che fluttua verso l’alto è già di per sè una contraddizione. Ma non è una forma egizia, o neoclassica, è un qualcosa di quasi tecnologico, che si alza verso la luce, che guarda al futuro».

Già, il futuro. È questa la sfida del nuovo Museo, che – racconta Silvio Delbello, presidente dell’Irci – dovrà conservare memorie ma soffiarvi dentro un po’ di vita, tutelare il passato e insieme renderlo materia ancora stimolante di studio, di approfondimento, di dibattito per figli e nipoti di chi ha dovuto andarsene e di chi ha scelto di rimanere. Perchè anche i rimasti, l’Unione Italiana di Fiume, hanno contribuito al massiccio restauro con 135 mila euro, che si sono sommati ai consistenti finanziamenti della Regione, dello Stato, della Federazione degli esuli, dell’Irci, della Fondazione CrT, intervenuta con 550 mila euro per raggiungere la cifra finale di cinque milioni, costo globale della trasformazione del vecchio e cadente edificio comunale, l’ex ufficio igiene, in contenitore moderno, che sarà inserito a pieno diritto nel percorso museale.

A fine anno l’Irci riconsegnerà al Comune il palazzo di via Torino, sventrato, liberato dalle brutture e riorganizzato in spazi e altezze su progetto dell’architetto Giorgio Berni. «Non ho voluto fare l’elegia dell’esodo – racconta – e non ho mai trattato questo museo come un museo. Piuttosto ho pensato a un centro studi moderno, supportato da una tecnologia importante, con sale espositive che sono anche didattiche e quindi dotate di tutti i sistemi di trasmissione dati e immagini. Lo stesso percorso non è monotono: c’è una stanza a doppia altezza che spezza la monotonia dei volumi interni e gli studi particolari di illuminotecnica hanno l’obiettivo di sorprendere il visitatore, di coinvolgerlo».

Dai primi mesi del 2009 comincerà l’allestimento del percorso. Che poi, per quella che sarà la parte espositiva d’«impatto», è un percorso a ritroso verso il cuore della città dagli hangar del Portovecchio, dove si trovano ancora mobili, suppellettili, effetti personali dei trecentocinquantamila esuli, mai, finora, visti da estranei. Duemila metri cubi dentro cui è stivata la vita quotidiana di tante persone, spazzata via dalla storia e dalla guerra perduta: migliaia di sedie, decine di cucine, di camere da letto, di cassettoni, non reclamati in sessant’anni. Un «unicum» al mondo, non per il valore dei pezzi, povere cose, bensì per la fotografia che restituiscono, il piccolo mondo privato che ognuno riusciva a portare con sé nel momento del distacco.

Con alcuni di questi mobili, al primo piano del museo, accanto a bookshop e sala videoconferenze, sarà allestita una tipica cucina istriana, mentre all’ultimo, in una stanza con travi a vista affacciata sui tetti di Cittavecchia, una cappella accoglierà i segni della religiosità familiare. Una minima parte delle masserizie, verrà ricomposta nelle due enormi sale espositive, che non vogliono essere solo una rappresentazione etnografica ma soprattutto «storica» e sociale del mondo istriano: accanto alle testimonianze della vita familiare, quelle del lavoro, il laboratorio completo di un orafo piranese dell’800, una macchina da stampa tipografica, attrezzi di falegnami, calzolai, fabbri, farmacisti, contadini, lo strumentario del maestro Piccoli di Momiano, le sue invenzioni legate all’alfabeto e i suoi aggeggi tridimensionali per facilitare l’insegnamento…

Dal ballatoio in cristallo della sala a doppia altezza si vedrà la sottostante pinacoteca, arricchita, di recente, dall’acquisizione di oltre cento disegni di Giovanni Craglietto, artista di Verteneglio. Incisioni, litografie fra il ’700 e il ’900, una ricca vetrina del mondo pubblicitario triestino, istriano, fiumano e dalmata fra il 1880 e il 1940, oltre cento olii e disegni del fondo futurista e di avanguardia degli anni ’20 della pittrice fiumana Anna Antoniazzo. Qui, in futuro, potrebbero trovare collocazione anche i capolavori della pittura istriana, attualmente custoditi al Sartorio per conto della Sovrintendenza.

Nel nuovo museo si trasferirà l’Irci, con tutti i suoi archivi e uffici, il centro di documentazione multimediale e storica. Al primo piano la biblioteca, che conta circa quindicimila volumi, giornali dal 1700 al 1900, rarità come la raccolta integrale, l’unica esistente, del «Popolano dell’Istria», del «Viaggio in Dalmazia» dell’abate Fortis, dello «Stratico». Uno spazio dedicato accoglierà la catalogazione completa di tutte le tombe italiane in Istria e nelle isole, dotata di oltre ventimila immagini e continuamente «monitorata» per incarico del ministero degli Esteri.

E poi gli archivi. Quello del Comitato di liberazione nazionale dell’Istria, centomila documenti dal 1946 al 1960. L’archivio Quarantotti Gambini, che proviene dalla famiglia dello scrittore capodistriano e custodisce manoscritti, anche inediti, e testimonianze epistolari dei rapporti con Montale, Calvino, Bobi Bazlen. L’archivio Papo, composto da materiale documentario di illustri famiglie istriane dal 1700 agli anni dell’esodo, completato da una sezione fotografica con circa quattromila immagini delle terre giulie. E ancora le raccolte Parma, Damiani, Dolzani, Antoniazzo, Vigini, più piccole ma significative.

L’ultimo piano, infine, avrà l’aspetto di un sottotetto classico di casa ottocentesca, con travi a vista e spazi per incontri ristretti e piccole esposizioni a rotazione. Sul tetto sono collocati i pannelli fotovoltaici per il risparmio energetico, primo edificio pubblico a carattere storico dotato di questa tecnologia.

Ora, in attesa degli allestimenti, è lo spazio blu a risucchiare l’attenzione. Dice Schiozzi: affacciandosi dai vari piani, nessuno riuscirà a vedere la stele nella sua interezza, il fondo si perderà in un blu che, grazie alla luce dall’alto, diventerà più intenso in modo naturale. Nessuna retorica, un simbolo asciutto, d’acciaio, magico e tecnologico, allungato tra passato e futuro. Lo stesso compito, delicato, che ora tocca al museo.

(fonte Arianna Boria su Il Piccolo)

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