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28 set – Tiberi Mitri, guantoni da poeta

Tiberio è stanco. Tiberio ha vissuto troppo, ne ha date e prese tante dalla vita, più che sul ring, da non poterne più. L’avevano capito i volontari della Comunità di Sant’Egidio che si prendevano cura di lui, e anche padre Matteo, in quell’ultima domenica: alla Messa, nella basilica di Santa Maria in Trastevere, Tiberio stava lì, con lo sguardo perso nel vuoto. Aveva gettato la spugna. Neppure un accenno di quel solito montante per finta, prima di rispondere «amen» e poi prendere la comunione.

Pugni in tasca e passo lento del malato d’Alzheimer. Nella testa il rumore forte del gong a confondere gli ultimi sprazzi di lucidità, sciacquati da una pioggia di whisky, finito dentro l’ultimo bicchiere. Quello della staffa, alla salute degli amici veri, quei pochi o tanti, chissà, che non avevano abbandonato il grande pugile. Poi un sorriso nostalgico, un uomo smarrito per i vicoli di Roma, fino a trascinarsi a un binario triste e solitario, per sentire ancora tra i capelli il soffio di una vita e di un tempo che si sfilava via come un guantone. Inghiottito per sempre, da un treno in corsa.

Tiberio chinò il capo e aggrappandosi alle corde ripensò a quella frase annotata nel suo libro (La botta in testa): «Prima di morire si è capaci di rivivere la vita in un soffio…». È finito così, a 74 anni, il 12 febbraio del 2001 l’ultimo match con l’esistenza di Tiberio Mitri. Non c’è stato un grande pugile che non possa anche dirsi grande poeta. E come ogni poeta, la sua nobile arte era votata inevitabilmente al fallimento. In questo Mitri è stato sicuramente il pugile italiano più poetico. Un poeta maledetto, del peso di Rimbaud – «scriveva benissimo Tiberio», ricorda Nino Benvenuti – o della razza ammaliante ed eclettica di Cravan (il pugilatore nipote di Oscar Wilde).

Un personaggio letterario, nato e cresciuto sullo sfondo conteso e decadente della sua amata Trieste del secolo scorso. La voglia di libertà e il senso di fuga era innato in quel ragazzino dal tratto gentile, venuto su orfano di padre assaporando sulla bocca sanguinante la polvere di via Rigutti, la via Paal dei furti delle maniglie d’ottone. Conobbe l’atmosfera cupa e le catene dell’educatorio dalle quali, quattordicenne, sfuggì accollandosi tutte le colpe di una ragazzata, per salvare dalla punizione sicura il fratello Claudio. Solo lo scoppio della Seconda Guerra gli evitò la reclusione prolungata nel carcere fascista. Nella Trieste dei balilla vagava randagio arrangiandosi in mille mestieri, dalla panetteria, alla bottega dello scalpellino di barche alla fonda del porto.

Una vita qualunque, non ancora poetica, fino all’ingresso in quello stanzone dall’odore di resina impastata al sudore: la palestra Quis Contra Nos. Ogni poeta, così come ogni pugile, visse d’arte e d’amore. E infatti i suoi primi incontri furono sfide di cuore, alla conquista di quello della bella Wanda. Ma a sbarrargli il passo trovò il più energico combattente di via Rigutti, Luciano Mosconi, che dinanzi a una Wanda divertita, umiliava il più fragile Mitri. Eppure gli occhi attenti degli esperti di bordoring in quel grintoso perdente intravidero una dote rara.

L’allenatore Bruno Fabris notò che ai movimenti rozzi accompagnava un istinto fuori dal comune. Anche le sue fughe erano tali: saltò su una nave della Marina militare e partì, giusto il tempo dell’attacco fatale di Lussinpiccolo e Lussingrande, dal quale si salvò miracolosamente rifugiandosi in una grotta. Ne seguì l’arresto e la reclusione a San Sabba nell’unico Polizeihaftlager, con tanto di forno crematorio, presente sul territorio italiano. Per evitare la deportazione dei nazisti entrò a far parte della milizia ferroviaria che aveva il compito di controllare il passaggio dei treni dal Carso all’Istria, assistendo impotente al massacro delle foibe.

Gli occhi di quel diciottenne che aveva sconfitto la fame, che era fuggito dalla dura legge dell’educatorio e del carcere, l’impavido che aveva schivato le bombe degli aerei alleati ed era scampato al lager tedesco e alle faide con gli slavi, come poteva temere i colpi dei pugili avversari che erano lì ad attenderlo al centro del quadrato? Ad aspettarlo ancora c’era l’altro poeta del Fabris, che quando non soffriva all’angolo per i suoi allievi si rifugiava nello studiolo a comporre versi e a dipingere tele. La passione per l’arte e la scrittura la trasmise anche all’inafferrabile Tiberio, che a 21 anni conquistò il titolo italiano dei pesi medi. Nell’Italia ormai liberata per lui si spalancarono le porte dell’Europa.

E mentre tutti ancora piangevano la tragedia aerea del Grande Torino, il 7 maggio 1949, a Bruxelles, Mitri vinse il titolo europeo battendo Cyrille Dellanoite. Sempre quell’anno, in un altro incidente aereo perse la vita un altro massimo poeta del pugilato, l’amico di Prevert, Marcel Cerdan: tornava a Parigi dagli Stati Uniti per riabbracciare la sua amata, la grande voce di Francia, Edith Piaf. Da quel momento, per tutti Mitri divenne l’erede naturale di Cerdan, il pugile europeo idoneo per la sfida al colosso italoamericano Giacobbe "Jake" La Motta. Il ragazzo del porto di Trieste era pronto per sfidare l’idolo del Bronx: "faccia d’angelo" contro il "toro scatenato". Una sola cosa in comune tra loro: l’aver sposato due Miss, quella italiana del ’48, l’attrice Fulvia Franco, e quella americana, Vickie Thailer.

Per il resto due mondi distanti, uniti dalla fame di successo e manipolati dalla mano sporca e pesante della mafia che maneggiava dollari e scommesse agli ordini del boss Frankie Carbo, che regnò sul pugilato fino all’avvento del dissidente Mohammed Ali.

Solo per volere di Carbo intanto, il 12 luglio 1950, Mitri, in un Madison Square Garden gremito di paisà, potè sfidare il terribile La Motta. Uno degli incontri più violenti della storia della boxe. Una resistenza stoica quella dell’italiano che, nonostante la montagna di colpi crollatagli addosso, rimase in piedi per tutti i 15 round. Sconfitto, ma con onore, da un La Motta che sottovoce ripeteva a se stesso: «Sono il più forte, sono il più forte, il più forte…».

Il volto d’angelo irriconoscibile, ridotto a una maschera di sangue. Fine del miraggio americano e inizio del declino del pugile che aveva sognato di diventare il numero uno del mondo e di riuscire a far entrare sua moglie nello star system di Hollywood. Fine anche di quella storia d’amore con la Franco, antesignana delle moderne accoppiate "velina e campione", che allora aveva fatto la gioia dei paparazzi e appassionato i milioni di lettori dei rotocalchi. In quell’Italia da poveri ma belli, la loro separazione, nel 1954, fece scandalo.

Corteggiato dal cinema, il pugile amico degli attori alternava le sue giornate al bancone del Bar aperto a Roma a qualche comparsata a Cinecittà. Un uomo da dolce vita, ma il ring era la sua casa, l’unico luogo in cui poteva davvero sentirsi vivo e realizzato. Mitri tentò l’ultimo jab contro la sua bestia nera, l’ex minatore francese Charlse Humez, che lo spedì al tappeto per sempre.

Da quella notte per lui il pugilato sarebbe diventato un triste ricordo, una foto in bianco e nero di un’esistenza in cui faceva fatica a ricordare i momenti di gloria. Ma le sconfitte più dure per un poeta del ring arrivano sempre dalla vita. Gli ultimi sprazzi da vero campione li aveva provati calandosi nel ruolo insolito del padre a tempo pieno, girando l’Italia in roulotte con i figli Alex e Tiberia.

A nulla però valse l’estrema difesa paterna, i suoi due angeli, con le ali bucate dall’eroina, volarono via molto prima di lui. Alla metà dei vuoti anni ’80, Mitri era rimasto solo, ma fino all’ultimo round ha alzato sempre la guardia, consapevole della lezione più importante appresa dal pugilato: «Tutto ciò che si crea con fatica in una vita, si può distruggere in dieci secondi».

Massimiliano Castellani su Avvenire del 26 settembre 2010

 

 

 

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