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26 lug – Sergio Romano: il Trattato di Osimo fu inevitabile

"Lettere a Sergio Romano" dal Corriere della Sera del 23 luglio 2010

L’incontro tra Slovenia, Croazia e Italia finalmente è arrivato a sancire ufficialmente la fine di una situazione di confine ingarbugliata da anni. Bene ha fatto, pertanto, il nostro presidente Napolitano a presenziare a quell’atto dovuto alla storia. Ma a titolo di commento amaro, c’è da sottolineare che l’Italia è sempre quella che, internazionalmente, alla fine di un qualsiasi avvenimento sia guerresco che politico, a posteriori, ci rimette sempre a «tavolino». Questa volta la «pace rubata» parte da Osimo dove, nel ’75, il sottaciuto «Trattato» fu firmato tra Italia e Jugoslavia, caldeggiato dall’allora Pci che costrinse il governo Moro a cedere la zona «B» istriana all’amico Tito, in contropartita di un tacito sostegno allo stesso governo. Fino a quell’anno, infatti, l’Istria era ancora italiana, anche se amministrata in «via temporanea» dalla Jugoslavia. Potrebbe sembrare revanscista, oggi, in tempi d’Europa Unita, riparlare di un vecchio Trattato del ’75, ma sta di fatto che c’è e proprio noi, italiani, non dobbiamo aver paura di nominarlo, proprio perché siamo noi a volerlo superare.

Roberto Pepe

Risponde Sergio Romano

Ho dovuto abbreviare la sua lettera, troppo lunga per la nostra pagina, ma spero di avere conservato la sostanza dei suoi argomenti e del suo giudizio sul trattato di Osimo. Quel trattato non fu il risultato di una pressione del Pci sul governo Moro. Fu il frutto di una scelta della politica estera italiana fondata su due considerazioni che erano in quel momento alquanto razionali. Sapevamo anzitutto che ogni altra soluzione sarebbe stata resa estremamente difficile, se non impossibile, dai movimenti di popolazione occorsi dopo la fine della Seconda guerra mondiale. La grande maggioranza degli italiani era stata costretta ad abbandonare i territori perduti e il loro posto era stata preso da sloveni, croati e altri cittadini della Federazione jugoslava che erano diventati, dopo due generazioni, «indigeni». Potevamo forse cacciarli? Gli spostamenti di popolazione, da quello dei greci di Smirne a quello dei tedeschi cacciati dalla Prussia orientale, sono possibili a caldo, all’indomani di una guerra, ma sono difficilmente immaginabili durante un periodo di pace. A Osimo fu preso atto di una realtà che non era modificabile se non con nuovi conflitti.

La seconda considerazione concerne la Guerra Fredda. Grazie alla politica di Tito, la Jugoslavia era diventata una sorta di Svizzera comunista con una particolare forma di neutralità che Belgrado definiva «non allineamento». Nel clima di allora l’Italia aveva interesse a impedire che il Paese scivolasse ancora una volta tra le braccia del colosso sovietico e, se possibile, a stabilire con Belgrado una sorta di rapporto speciale. Per molti aspetti, con tutte le differenze del caso, il Trattato di Osimo si ispirò agli stessi criteri a cui si era ispirato il governo Giolitti nel novembre 1920 quando il suo ministro degli Esteri, Carlo Sforza, negoziò con il Regno dei serbi, croati e sloveni il trattato di Rapallo.

Quello di Osimo prevedeva tra l’altro una serie di misure per il sostegno culturale delle minoranze italiane e un’ambiziosa zona franca industriale, alle spalle di Trieste, che non fu realizzata anche per la tradizionale diffidenza dei triestini verso le popolazioni slave. Dopo quanto è accaduto in Jugoslavia negli anni Novanta sappiamo che il nostro investimento sullo Stato di Tito si dimostrò alla fine poco produttivo. Ma non credo che la mancanza di un trattato ci avrebbe permesso, dopo lo smembramento della Jugoslavia, di avanzare rivendicazioni territoriali. Avremmo fatto un passo che non sarebbe piaciuto all’Europa e che neppure la Germania riunificata, quando la Polonia chiedeva di entrare nell’Unione Europea, ritenne di potere fare.

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