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23 mar – Zara: dopo 65 anni torna l’asilo italiano

Dalla prima pagine del Corriere della Sera del 23 marzo 2009

di Gian Antonio Stella

«Din din. Chi xé? L'angiolin. Cossa el vòl? Un color. Che color? Bianco! Che color? Rosso! Che color? Verde!». Sessantacinque lunghissimi anni dopo, nei campielli di Zara i bambini torneranno a fare i girotondi con le filastrocche di un tempo. Ormai è fatta: ancora pochi mesi e in autunno, dopo interminabili trattative, nella città di San Simòn e Sant'Anastasia sta per aprire un asilo per bambini di lingua italiana. Una notizia piccola piccola. Eppure storica. L'anima veneziana di quella dolce contrada serenissima, infatti, pareva ormai irrimediabilmente perduta. Che l'antica Jadera voluta da Cesare Augusto con un cardo (la Calle Larga), un decumano (Via Roma) e un foro, fosse fino a pochi decenni fa la più veneziana di tutte le città dalmate lo sapeva anche l'imperatore Francesco Giuseppe che, sbarcato nel 1875 sull'isola lunga un po' più di un chilometro e larga mezzo e unita dal '600 con un ponte alla terraferma, salutò le autorità locali così: «Buon giorno, signori».

Era allora, la cittadina, una specie di sestiere serenissimo con 72 calli e 15 campielli protetto da mura nelle quali si aprivano due grandi porte. Quella di Terraferma aveva un Leone marciano che nel 1953, durante un'accesa manifestazione nazionalista anti-italiana, sarebbe stato amputato a martellate delle zampe anteriori, quella Marina aveva un San Grisogono a cavallo. Si parlava veneziano, si rideva veneziano, si mangiava veneziano. Come scrisse un secolo fa Luigi Federzoni, che sarebbe poi diventato presidente del Senato e dell'Accademia d'Italia, «Venezia non partorì mai, nella sua lunga e copiosa maternità, figliola più somigliante di questa, né più degna, né più devota. Zara è adorabile. Zara dovrebbe essere in cima ai pensieri di tutti gli italiani. Per il labirinto delle calli pittoresche formicola tanta festevole, graziosa e appassionata venezianità».

Uno scrigno prezioso, incorniciato dalla bellezza mozzafiato dell'arcipelago delle Coronate. «Nella via Larga – scriveva Giuseppe Madrich nel 1892 – vedete sfilare un mondo supremamente aggraziato: dame dal portamento principesco e maestoso, signorine vispe, gaie, slanciate come gazzelle, cavalieri galanti, perfetti, cortesissimi. Le mode più recenti, le stoffe più ricercate danno l'intonazione all'ambiente. È un gusto squisitissimo di toelette, da gareggiare con qualunque altro centro europeo. Perfino le sartine sfoggiano, nel loro vestitino, ricercatezza ed eleganza ». Ai tavoli dei caffè si sorseggiava il maraschino fatto con certe ciliegie squisite ed esportato ovunque: «Se ne beve alle tavole signorili della più alta aristocrazia d'Europa, se ne serve nei pranzi di gala a corte; se ne smercia in America, nelle Indie, nel Giappone, in China, in Egitto. Il suo grato profumo è una poesia, il suo sapore è un idillio…».

Era un piccolo mondo legato a Venezia da un amore che si può capire solo rileggendo lo straziante addio alla patria pronunciato nel 1797, ammainando la bandiera, da Giuseppe Viscovisch, Capitano di Perasto, l'ultimo baluardo della Serenissima a cedere alle truppe napoleoniche: «Par 377 ani le nostre sostanse, el nostro sangue, le nostre vite, le xe senpre stae par Ti, San Marco; e felicisimi sempre se gavemo reputà, Ti co nu, nu co Ti; e sempre co Ti sul mar». Un piccolo mondo sopravvissuto quasi intatto ai francesi e agli austriaci e spazzato via nell'inverno 1943-44 da 54 pesantissimi bombardamenti aerei anglo-americani che distrussero oltre l'85% degli edifici. Un bombardamento feroce e insensato, rispetto allo scarso valore militare o strategico della cittadina. Dovuto per alcuni all'insipienza, per altri a notizie false passate apposta agli alleati dai titini perché fosse spazzata via per sempre quell'isola venezianissima dalla Dalmazia destinata ad essere slavizzata.

Certo è che nel 1945, dopo un esodo di massa che aveva preceduto quello delle altre città istriane e quarnerine e aveva avuto un sanguinoso strascico di vendette, nella «Zadar» ormai slava erano rimaste in tutto, secondo qualche storico, dodici famiglie italiane. Pareva finita, la storia veneziana di Zara. Finita. Per decenni e decenni erano rimasti solo una giunta comunale in esilio che si era data come sindaco lo stilista Ottavio Missoni, alcune fabbriche di maraschino trasferite nel Veneto come la celebre Luxardo, i groppi in gola di tanti zaratini che sospiravano sulla patria perduta. E via via, con lo scorrere del tempo, gli ultimi bambini italiani che avevano giocato laggiù tra le calli di San'Elia o di Campo Castello, sono diventati vecchi.

Il tempo però, talvolta, medica davvero le ferite. Merito dell'aspirazione dei croati a entrare nella nuova comune casa europea a dispetto dell'ostilità degli sloveni che si mettono di traverso per una bacinella di acqua territoriale nel golfo di Pirano, merito di una maggiore serenità nei rapporti che puntano finalmente a una riconciliazione al di là dei torti dell'una e dell'altra parte, merito del paziente lavoro di ricucitura e di mediazione avviato da anni dall'Unione Italiana. Fatto sta che dopo un lungo percorso diplomatico perseguito soprattutto dal deputato istriano a Zagabria Furio Radin e dal presidente dell'Unione Maurizio Tremul, il «sogno impossibile» sta appunto andando in porto: 65 anni dopo, a Zara, riaprirà un asilo per piccoli italiani dove si manderanno a memoria le poesiole di una volta: «Ghe gera na volta / Piero se volta, / casca na sopa / Piero se copa / casca un sopin / fa un tombolin». Per ora sarà solo una sezione dell'asilo croato. Ma forse è meglio così: bambini slavi e italiani insieme. I loro nonni si sono già fatti troppo male.

Gian Antonio Stella

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