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2013, l’anno di Padre Flaminio Rocchi (6) – 02apr13

Eccoci al sesto appuntamento con la vita e le opere di Padre Flaminio Rocchi, l’Apostolo degli Esuli, in occasione del decennale della morte e del centenario della nascita. In questa puntata Padre Flaminio parla dell’orrore delle Foibe, nelle pagine tratte dal libro “Padre Flamnio Rocchi, l’uomo, il francescano, l’esule”.

 

Chi ha vissuto il dramma delle Foibe istriane dal 1943 in poi e la tragedia dell’Esodo, non ha certo bisogno di ripercorrere quelle pagine di dolore. Per tutti quelli che, invece, hanno ancora qualcosa da imparare -me compreso- ho pensato di inserire in questo capitolo, in maniera evidentemente sintetica, alcuni scritti di Padre Flaminio oltre ad alcune testimonianze che lui stesso ha riportato nei suoi libri. Il motivo è centrare il senso di pietà umana che Flaminio voleva dare a questi accadimenti che hanno determinato lo stravolgimento del destino di un popolo. Il fatto che lui abbia scelto di scrivere questi testi e selezionato queste testimonianze, rappresenta così l’immagine più completa che i suoi occhi hanno visto negli anni del dolore. Ed è l’immagine che vi propongo, senza alcun commento che risulterebbe assolutamente stonato.

«All’italiano vinto restarono due soluzioni: o la fuga o l’annientamento. Qualsiasi forma di coesistenza era inconcepibile allora con gli slavi. Secondo notizie ufficiali del Comitato di Liberazione Nazionale, gli slavi hanno cercato di eliminare perfino partigiani italiani dello stesso C.L.N. per paura di dover condividere con loro l’amministrazione della regione. La scuola bolscevica aveva insegnato che era necessario approfittare della confusione bellica e dell’euforia dell’occupazione militare per eliminare alla spicciolata tutti i personaggi potenzialmente scomodi. I processi, anche quelli farseschi, sono fastidiosi. Così la deportazione e la morte potevano dipendere dal livore di un caporale o di un delatore interessato, senza processo. Tutto il peso della vendetta slava contro la guerra italo-tedesca cadde sulla Venezia Giulia. I giuliani, i fiumani e i dalmati espiarono da soli, con i loro deportati, con i loro morti e con la confisca di tutti i loro beni, una guerra nazionale. Gli occupatori slavi estesero subito la loro epurazione punitiva anche contro le numerose espressioni della civiltà italiana: leoni veneziani, chiese, statue, tabernacoli votivi, monumenti, lapidi, toponomastica, istituzioni, ecc.»

«Vengono rastrellate singole persone, famiglie, gruppi. Alla fine saranno 12 mila. Sono contadini vissuti tra le viti e gli ulivi, pescatori curvi sulle reti lungo la costa istriana, minatori del villaggio dell’Arsa, preti col vecchio breviario latino in mano, padroni che vestono a festa, farmacisti e medici che hanno il potere della salute, bidelli che spazzano le aule e innalzano la bandiera, impiegati che riempiono il formulario italiano, barbieri che ospitano tutte le chiacchiere in bottega, proprietari denunciati dai mezzadri, maestri che dipendono da Roma, donne semplici, quelle del focolare e del bucato, bambini colpevoli solo perché hanno lo stesso sangue, giovani italiane che cantano le canzoni di Venezia e di Napoli, carabinieri, finanzieri, poliziotti del sud, comandati a difendere la gente e le case, qualche soldato sbandato e spaurito. […] Sono legati due a due per le braccia, per i piedi, oppure a catena di cinque, di dieci. Si preferisce l’alba. Si avviano vivi verso la propria tomba. L’angoscia li attanaglia. «Come si muore in una Foiba?». I curiosi, nascosti e spauriti, spiano le reazioni nei loro volti, nei loro passi. Una mano si spinge fra i battenti di una finestra e agita un fazzoletto. […] Qualcuno traballa, cade e trascina nella caduta il compagno. Lo scudiscio e i colpi con il calcio delle armi non riescono a rimetterli in piedi. Non c’è un Cireneo che li aiuti. Due pallottole li inchiodano sulla strada. […] Scendendo a strattoni dagli autocarri, con gli occhi frugano davanti, nella penombra, tra le rocce cespugliose, l’imboccatura della Foiba che li inghiottirà. Le vittime vengono spinte a calci e bastonate sull’orlo della Foiba. Urlano, pregano, fissano gli occhi sbarrati nel baratro. Una sventagliata di mitra e il peso dei feriti trascina anche gli incolumi. I contadini sentono lamenti strazianti per giorni, insieme all’odore della morte.»

Particolare devozione Padre Flaminio ha sempre espresso per Norma Cossetto, la martire simbolo degli anni del terrore. Ecco come descrive la sua storia, insieme ad alcune considerazioni sulle Foibe.

«Norma Cossetto era una splendida ragazza di 24 anni di S. Domenica di Visinada, laureanda in lettere e filosofia presso l’Università di Padova. In quel periodo girava in bicicletta per i Comuni dell’Istria per preparare il materiale per la sua tesi di laurea, che aveva per titolo “L’Istria Rossa”, (terra rossa per la bauxite). Il 25 settembre 1943 un gruppo di partigiani irruppe in casa Cossetto razziando ogni cosa. Entrarono perfino nelle camere, sparando sopra i letti per spaventare le persone. Il giorno successivo prelevarono Norma. Venne condotta prima nella ex caserma dei Carabinieri di Visignano dove i capi banda si divertivano a tormentarla, promettendole libertà e mansioni direttive, se avesse accettato di collaborare e di aggregarsi alle loro imprese. Al netto rifiuto, la rinchiusero nella ex Caserma della Finanza a Parenzo assieme ad altri parenti, conoscenti ed amici. […] Dopo una sosta di un paio di giorni, vennero tutti trasferiti durante la notte e trasportati con un camion nella scuola di Antignana, dove Norma iniziò il suo vero martirio. Fissata ad un tavolo con alcune corde, è stata violentata da diciassette aguzzini, ubriachi ed esaltati e quindi gettata, nuda, nella Foiba poco distante, sulla catasta degli altri cadaveri degli istriani. Una signora di Antignana, che abitava di fronte, sentendo dal primo pomeriggio gemiti e lamenti, verso sera, appena buio, osò avvicinarsi alle imposte socchiuse. Vide la ragazza legata al tavolo e la udì, distintamente, invocare la mamma e chiedere da bere e pietà. […] Il 13 ottobre 1943 a S. Domenica ritornarono i tedeschi i quali, su richiesta di Licia, sorella di Norma, catturarono alcuni partigiani che raccontarono la sua tragica fine e quella di suo padre. Il 10 dicembre 1943 i vigili del fuoco di Pola recuperarono la sua salma: era caduta supina, nuda, con le braccia legate con il filo di ferro, su un cumulo di altri cadaveri aggrovigliati. […] La salma di Norma fu composta nella piccola cappella mortuaria del cimitero di Castellier. Dei suoi 17 torturatori, sei furono arrestati e obbligati a passare l’ultima notte della loro vita nella cappella mortuaria del locale cimitero per vegliare la salma, composta al centro. Veglia funebre di terrore alla luce tremolante di due ceri, nel fetore acre della decomposizione di quel corpo che essi avevano seviziato 67 giorni prima, nell’attesa angosciosa della morte certa. Soli con la loro vittima, con il peso enorme dei loro rimorsi, tre impazzirono e all’alba caddero con gli altri, fucilati a colpi di mitra. Ai funerali di Norma, che venne sepolta nel piccolo cimitero di Santa Domenica di Visinada, nella cappella di famiglia, partecipò una folla immensa poiché essa era considerata come una vera martire. La mamma della ragazza morì dopo pochi anni di crepacuore. […] Norma era conosciuta, stimata ed apprezzata sia per il suo carattere aperto e giovanile e soprattutto per la sua cultura. […] Il suo sacrificio resterà nella storia come la più sconcertante testimonianza della tragedia della gente giuliana. La colpa di quella tragedia va addebitata principalmente al clima arroventato di violenze e di vendette che si abbatté sulla piccola Istria dopo 1’8 settembre 1943. Ma tale clima non giustifica la paura di ricordare il sacrificio purissimo di questa eroina istriana da parte della Patria, così generosa nel distribuire medaglie e nell’intitolare strade e piazze».

Nel 2006, 63 anni dopo quei drammatici fatti, il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi consegnerà a Licia Cossetto la Medaglia d’Oro al Valor Civile per la sorella Norma.

«Negli anni ‘50 ho ricevuto lettere confidenziali. Le vedove, i figli eredi, prima di redigere l’atto notorio per l’eredità dei beni abbandonati, scrivevano spauriti: “E’ morto in Foiba”. M’hanno lasciato fotografie sconcertanti. Ne ho pubblicate cinquanta sul libro dell’esodo. Non ci potevo credere. Mi sono finto un geologo francese. Ho girato per le osterie di Basovizza e di Monrupino. Ho letto le annate de “Il Piccolo” di Trieste e di altri giornali con le cronache dell’epoca sulle esumazioni delle salme. Ho consultato gli archivi dei Comuni di Trieste, di Gorizia e dei relativi vescovadi, dei conventi francescani, dei Ministeri degli Esteri e dell’Interno.»

«Ritengo che nella maggioranza assoluta erano innocenti e sono stati vittime di una crudele pulizia etnica contro gli italiani senza processo. E’ quindi inutile cercare negli archivi i verbali di processi. I verbali non esistono. Non difendo né l’occupazione della Jugoslavia da parte dell’esercito italiano nel 1941, né le azioni del ventennio fascista. Difendo l’onestà del popolo istriano il quale, cacciato dalle sue case, non ha risposto con la violenza. Ha preso in silenzio la via dolorosa dell’esilio. Non nutro sentimenti di vendetta. Cerco un dignitoso ricordo dei morti e una dignitosa pacificazione con i vivi. […] Le Foibe costituiscono una tragedia che disturba i rapporti tra i due popoli. Affidiamola con dignità alla storia e proseguiamo con coraggio verso la conciliazione e verso la collaborazione.»

«Mi sconcertano due fatti: mentre l’Italia nelle Puglie curava 11.842 feriti jugoslavi, dava da mangiare a 30 mila loro profughi, armava i loro partigiani, in Istria loro, partigiani, massacravano contemporaneamente gli italiani. Roma dov’era? A metà tra le Puglie e 1’Istria? Ha preferito abbandonare gli italiani dell’Istria e curare e armare nelle Puglie i partigiani di Tito.»

«Nel 1954 ho cominciato a interessarmi degli infoibati. Un argomento spinoso che la politica voleva seppellire. Nel 1959 ho ottenuto che le due foibe di Basovizza e Monrupino venissero decorosamente coperte. Nel 1962 ho eretto su quello di Basovizza un cippo. Nel 1992 ho ottenuto il riconoscimento di ambedue le foibe come Monumento Nazionale.»

«Nel 1959 il Ministro della Difesa, Giulio Andreotti, ha disposto la copertura della Foiba di Basovizza con una pietra tombale di 90 metri quadrati con la seguente epigrafe dettata dall’arcivescovo Antonio Santin: “Onore e Cristiana pietà a coloro che qui sono caduti. Il loro sacrificio ricordi agli uomini la via della giustizia e dell’amore sulla quale fiorisce la vera pace”.»

«Come istriani sentiamo l’obbligo di difendere l’innocenza e la memoria degli infoibati, come l’ex Presidente Cossiga che si è inginocchiato sulla foiba di Basovizza “per chiedere perdono a questi morti perché dimenticati dai vivi”, come il Presidente Scalfaro che ha riconosciuto recentemente monumento nazionale le foibe di Basovizza e di Monrupino.»

«Le 52 Foibe sono come 52 canne d’organo che ripetono, urlano: “risorgeremo!”. Migliaia di mani si spingono dalle voragini nere verso la croce del primo crocifisso, unica speranza. […] Dalle voragini, dalle gole delle foibe, dopo 50 anni, i nostri morti gridano col Profeta Isaia: “fondete le spade e trasformatele in falci per mietere il grano per i vostri figli. Svuotate i vostri arsenali e trasformateli in granai perché Dio vi ha dato un cuore da riempire di amore e non di odio. Vi ha dato due mani, non per percuotere come Caino, ma per aiutare e sorreggere”.»

Da una lettera del 1999 a Edo Apollonio, presidente dell’ANVGD di Gorizia.

«Noi profughi non siamo una qualsiasi controparte amministrativa italiana. Dobbiamo difendere un pesante patrimonio di infoibati ed un esodo fatto di dolori e di ideali. Non tutto può finire con l’accertamento di quattro ossa (se le troveranno) e con la deposizione a due mani di una corona. Plaudo quindi ai tuoi numerosi interventi. Pochi conoscono il nostro dramma. Molti politici e alti economisti chiedono che si ponga una grossa pietra nel passato tra Italia e Iugoslavia. Ciò non avviene nei paesi dell’est. Per questo ho iniziato un’azione per il riconoscimento dell’innocenza delle vittime e dei valori che hanno determinato il nostro esodo in quelle determinate circostanze.»

Intervento di padre Flaminio in una trasmissione radio Rai del 25 settembre 1957.

«L’Istituto Centrale di Statistica, con la recentissima pubblicazione di un volume sui morti dell’ultima guerra, ha dato il più ambìto riconoscimento ai profughi giuliani, fiumani e dalmati. La nostra regione detiene il primato dei Caduti per la Patria. Primato durissimo, ma che attraverso la pesante ed inoppugnabile eloquenza delle cifre, dice che noi non siamo dei patrioti sentimentali, capaci soltanto di scampanellare per l’Italia le nostalgiche campane di S.Giusto, o di invocare la Patria nel tono ampolloso o dolciastro di certa politica o poesia patriottarda. La travagliata vita di frontiera ci ha insegnato ad amare l’Italia con la rinuncia, la sofferenza, col sacrificio della vita. Se la media di tutte le regioni nell’ultima guerra è di 10 morti per ogni mille abitanti, se il Friuli raggiunge il massimo di 16 per mille, la Venezia Giulia con Fiume e Zara raggiunge quasi il 30 per mille. […] Quanta storia di gloria e di dolore sotto il velo anonimo di queste cifre! Domani i posteri non potranno rimproverarci nulla. Alla Patria abbiamo dato i nostri morti del cielo, del mare e della terra. L’ultimo nostro gesto, prima che il trattato di pace ci cacciasse come profughi dalle nostre case, è stato un tentativo disperato di coesistenza con gli slavi per salvare l’italianità delle nostre terre: tentativo pagato con 12.000 infoibati. Tanto sacrificio di sangue e di lacrime avrà placato il sonno tormentato dei 600.000 che caddero per la nostra Redenzione dal 1915 al 1918. Possiamo affermare che i nostri morti hanno fatto l’impossibile per conservare alla Italia quelle terre. A qualcuno potrà sembrare esagerato questo glorioso primato; non ai giuliani e ai dalmati il cui patriottismo, per molti incomprensibile, si è alimentato ed è cresciuto nel clima aspro di una frontiera difficile e insidiosa, dove non c’era posto per la sonnolenza; non alla nostra gente che, col rischio di scandalizzare, non si vergogna di piangere ancora per la Patria.»

 

La prima puntata con la biografia sintetica http://www.anvgd.it/notizie/14901-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-1-12mar13.html

La seconda puntata e la vita da cappellano militare http://www.anvgd.it/notizie/14913-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-2-14mar13.html

La terza puntata sull’esperienza di cappellano militare in Corsica http://www.anvgd.it/notizie/14945-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-3-19mar13.html

La quarta puntata con i ricordi della sua Neresine http://www.anvgd.it/notizie/14961-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-4-22mar13.html

La quinta puntata con l’impegno nell’Associazione http://www.anvgd.it/notizie/14987-2013-lanno-di-padre-flaminio-rocchi-5-26mar13.html

 

 

 

Padre Flaminio Rocchi parlava spesso degli Infoibati durante le omelie in occasione dei raduni degli Esuli

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