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14 set – Omaggio a D’Annunzio (parte II)

di Claudio Antonelli, istriano residente in Canada

PARTE II

Noi emigrati, abituati, nel passato e anche in epoche recenti, a mangiare il pane amaro della denigrazione antitaliana, possediamo una sensibilità particolare.  Si sa che l’idea della patria è ampliata e nobilitata dalla perdita o dalla lontananza del suolo natale. Ecco perché con questo mio discorso io so, oggi, di toccare cuori sensibili. Gli emigrati sanno che la Patria non è un’invenzione di retori, di sciovinisti, di odiatori dello straniero, ma che è una realtà dello spirito. Essi lo sanno così bene… E, se mi permettete, lo sanno ancora meglio i popoli di frontiera come quello cui noi apparteniamo: il popolo delle terre già definite irredente la cui passione di italianità si è scontrata, dopo l’esodo, in un’Italia dall’antipatriottismo trionfante, con l’amore per le bandiere altrui. La retorica è tale per chi non crede alla verità racchiusa da certe parole. La retorica nazionalista di d’Annunzio nei confronti dell’Istria, Fiume e Dalmazia fu invece l’espressione dell’animo di un uomo che tradusse nell’azione, sfidando la morte, il senso autentico delle proprie parole.

Retorica… questo male particolarmente diffuso tra gli Italiani, gente per secoli asservita allo straniero, ma che ha trovato sempre conforto nel ricordo della grandezza passata e nell’attesa di una grandezza futura. La trascorsa grandezza di Roma, il ricordo dell’Umanesimo e del Rinascimento hanno alimentato il culto tipico italiano per le frasi magniloquenti. Ma quanto umano, in fondo, questo volersi nobilitare rifacendosi alla gloria del prima, quando ci si trova a vivere in un presente assai poco glorioso. Gravi danni, oltre che dall’illusione che noi Italiani siamo gli eredi morali dei Romani, ci sono venuti dalla scarsa coscienza nazionale e dall’“elitismo” culturale con il culto del latino e l’imitazione dei classici. In d’Annunzio noi certamente troviamo il pericolo della sontuosità retorica e dell’estetismo decadente. Impossibile negarlo. Lo troviamo anche nei suoi discorsi patriottici. Ma, fatto quasi unico nella storia degli uomini di lettere aspiranti superuomini, d’Annunzio fu uno dei pochissimi che tradusse le parole in azione e che mostrò quanto vere fossero quelle parole dalla patina antica, animate da ritmi fascinosi, impreziosite da immagini sontuose, esaltanti l’eroismo. L’“Uomo d’arme” mostrò che la poesia poteva essere azione, e che il culto, in apparenza estenuato e decadente, della gloria, ricercato da lui mettendo a repentaglio la vita, aveva sostanza di sentimenti, d’azione, di verità. Egli dimostrò l’autenticità dei suoi sentimenti di amor patrio al di là di ogni dubbio, attraverso le straordinarie azioni di guerra compiute da volontario nella prima guerra mondiale, con il lancio aereo di manifestini su Trieste insieme col pilota Giuseppe Miraglia (agosto 1915), il volo su Trento (settembre 1915), le incursioni su Pola (agosto 1917), l’impresa di Cattaro, la beffa di Buccari, il « folle volo » su Vienna con il lancio di manifestini propagandistici, e con numerose altre imprese che gli valsero una medaglia d’oro, non meno di cinque medaglie d’argento, una di bronzo, tre promozioni per merito di guerra…

Vi posso garantire che se si potesse insinuare solo un po’ il dubbio su queste imprese eroiche, oggi le nostre biblioteche straboccherebbero di libri tendenti a smentire la versione gloriosa dei fatti. Ma ciò non può avvenire. Anche chi si avvicina a d’Annunzio soldato con spirito dubbioso, non può non riconoscere, forse a malincuore, che il Poeta dalla vita sibaritica, conteso da maliarde, che amava i cuscini e gli spessi tappeti di dimore sontuose, accettò il sacrificio crudele delle disadorne azioni di guerra, ricercate con spirito ascetico e con abnegazione sovrumana. Forse inconsciamente d’Annunzio, attraverso la contestazione dell’ordine stabilito e l’affermazione guerriera, ricercava per sé e per l’Italia – nazione incerta perché troppo recente – una più ampia, sicura identità, mirando ad affermare, come ha scritto De Felice, « una volontà di una vita collettiva nuova ». La sua fu come un’esplorazione dei confini dell’anima nazionale. Esplorazione che purtroppo finì con il restringimento degli orizzonti nazionali, in seguito all’ingloriosa seconda guerra mondiale, che comportò la perdita delle terre adriatiche e operò il capovolgimento dei valori ai quali egli si era ispirato.

La forte passione nazionale, propria dei popoli che attendono il ricongiungimento con la madrepatria, d’Annunzio la constatò dal vivo, forse per la prima volta, nel viaggio che compì nelle terre irredente. Ciò avvenne nella primavera del 1902. Egli arrivò il cinque maggio a Trieste. Era la prima volta che visitava quella città. Poi, in motonave, fece il giro di tutte le coste dell’Istria. Fu a Pola, Rovigno, Pirano. Queste terre facevano parte dell’Impero Austro-Ungarico. Il suo fu un pellegrinaggio. Dalle coste dell’Istria volle spingersi fino a Pisino, situata nel centro della penisola adriatica. Quelle terre, secondo me, furono per d’Annunzio una fonte diretta di ispirazione patriottica, alimentando la sua passione d’italianità.

Io so di toccare tasti difficili. Non tutti potranno capire il discorso di chi usa parole che per taluni, come per me, sono carne e sangue, e che per altri possono apparire l’espressione di risonanti formule vuote. Per le popolazioni italiane di quei luoghi, invece, parole come Roma, Dante, Venezia… non erano solo parole, ma una realtà dai contorni mitico-religiosi.

« Pisino era una roccaforte – ha scritto la professoressa Nerina Feresini – ed i suoi cittadini stavano sempre sulle barricate. Avevano un patrimonio prezioso da difendere, la loro civiltà italiana insidiata. » D’Annunzio era già un autore conosciuto ed aveva già espresso il suo patriottismo, ma niente di più. Grazie a questo viaggio egli riuscì ad avere una conoscenza profonda, al livello dell’anima, di un’Italia che in Italia non esisteva. Incontrò l’Italia del sogno di riscatto e dell’amore patrio fatto di lotte quotidiane e di veri sentimenti, e non di discorsi ufficiali e di formule retoriche. Incontrò l’Italia irredenta, per usare quest’espressione che ancora una volta rivela il profondo, incolmabile divario tra chi fa di patria una semplice parola retorica e chi invece per quella parola è pronto a morire. Apro una parentesi. Anche mio padre, per designare l’epoca dell’Istria divenuta italiana ricorreva all’espressione « dopo la redenzione ». Espressione che suona oggi triste e patetica, alla luce dell’accoglienza che i profughi giuliani, lasciando la loro terra natale, ricevettero in Italia…

Gli Italiani delle terre adriatiche “dell’altra sponda”, situata all’incrocio di culture e di razze in lotta tra loro, avevano sviluppato nell’anima un desiderio d’identità nazionale ed un amore per la patria italiana che chi è nato pacificamente in Italia, e si considera tranquillamente Calabrese, Friulano, Ligure, Piemontese, non potrà mai interamente capire. Gli emigrati, invece, lo possono capire quest’amore. L’amore, nel bene e nel male, per quella realtà più ampia che la terra natale suscita, è per taluni una condanna cui non ci si può sottrarre. Noi emigrati sappiamo bene che spesso sono gli altri a ricordarci che noi siamo diversi da loro e che apparteniamo ad un altro destino nazionale.

Ma vedo ancora una volta che il discorso si fa difficile, parlando io di sentimenti che voi che provenite da quelle terre potete capire, ma ai quali sentimenti gli altri Italiani sono invece refrattari. Per loro, forse, dovrei parlare della mamma per poter suscitare un’immediata comprensione. Ecco, l’Italia era la mamma per la gente delle terre irredente. Una mamma lontana che si voleva vicina, sapendo quanto ci amasse. O così ci illudevamo… Mio padre mi ha raccontato che da bambino pianse lungamente quando avvenne la disfatta di Caporetto. Molti in Italia, invece, come testimoniano diverse fonti, continuarono in quei giorni a vivere come prima, fregandosene allegramente di quella disfatta.

Io non voglio qui vantare quello che per molti – soprattutto in Italia – è un male per sé : l’amor patrio, che impedirebbe una più ampia e generosa solidarietà con i nostri simili al di là delle frontiere. Permettevi di dirvi che io non credo ad un internazionalismo di maniera, così diffuso in tanti abitanti della penisola, nei fatti però legati allo spaghetto al dente, al dialetto, al campanile, alla squadra di calcio e alle loro manie modaiole. Per non parlare dell’ideologia dell’odio che condannava il proprio nazionalismo, ma che esaltava quello del paese guida delle masse proletarie. Basti pensare al culto della bandiera rossa, così diffuso in Italia per tanti anni, a scapito della bandiera tricolore, vista come una pericolosa manifestazione di ipernazionalismo guerrafondaio. Torno a ripetere : l’amore per l’Italia della gente delle terre poste sotto la dominazione asburgica era un sentimento profondo, che si esprimeva in vita vissuta e non in frasi fatte grondanti retorica. Ecco perché gli scritti, i discorsi, le azioni di d’Annunzio durante la prima guerra mondiale trovarono a Trento, in Istria, a Fiume e in Dalmazia un’eco che molti non potranno oggi pienamente capire.

Permettetemi di leggervi la frase augurale che si trova nel diario di prigionia di mio nonno, costretto a combattere dal lato dell’Austria, nella prima guerra mondiale, perché suddito austriaco. Egli si trovava in Russia, prigioniero, in condizioni durissime. Eppure pensava alla sua lontana Pisino scrivendo nel suo taccuino, nel gennaio del 1916, questo pensiero augurale da cui traspare un fervore quasi religioso : « Nella speranza ed anzi la certezza che la nostra madre Italia col suo preziosissimo sangue vorrà redimerci e che al mio ritorno nella bella Pisino i miei occhi vedranno spiegata al vento sopra il castello, che da secoli attende, il tricolore nostro e così sia. » In quello stesso castello, tre lustri prima, Gabriele d’Annunzio era stato festeggiato fervidamente dalla gente di Pisino.

Retorica, mi si dirà. Sì, retorica, ma dannunziana: la retorica che si sposa ai veri sentimenti e all’azione. Fabio Filzi, nato a Pisino, mia cittadina natale, salì sul patibolo a Trento nel 1916. Morì da eroe per la sua passione italiana. Anche lui fu un’espressione di questa retorica…

Mi potrebbe essere rimproverata una grave omissione se non accennassi ad un tragico capovolgimento avvenuto in molti di noi, figli delle terre irredente. Il tema meriterebbe ben altri approfondimenti. Ma per brevità mi limiterò a dire che la prima guerra mondiale, preludio alla seconda, fu un’immane tragedia che spezzò per sempre equilibri tra stati e sconvolse le identità nazionali di tanti uomini. In una lettera spedita a mio padre da un suo conterraneo, io ho letto una dolorosa analisi, fatta col senno di poi, di quella lontana guerra che segnò la distruzione dell’impero asburgico e che fece di noi dei cittadini italiani. « Ti ricordi, Mario, quanto abbiamo odiato l'Austria e Francesco Giuseppe ? Ah, se l’Austria potesse tornare… Felix Austria… » Questo è l’aspetto ancora più amaro, perché beffardo, del disfacimento del nostro mondo d’origine, del nostro esodo e della nostra dispersione in Italia e all’estero: questo dover rimpiangere il nostro nemico di allora, perché a molti di noi riesce difficile riconoscerci in un’Italia che ha aspettato mezzo secolo prima di ammettere, attraverso l’emissione di un francobollo, che vi fu un esodo, e in un’Italia in cui ci si riferisce a località come Pola e Parenzo, col nome slavo. Permettete allora al popolo che per tanti anni non è ufficialmente esistito di non tradire la memoria di d’Annunzio e di altri eroi che combatterono e anche morirono nel sogno di un’Italia più grande.

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