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14 set – Omaggio a D’Annunzio (parte I)

di Claudio Antonelli, istriano residente in Canada 

PARTE I

Gabriele d’Annunzio… Solo a pronunciare questo nome, si affollano al nostro spirito immagini, sensazioni, idee. Il poeta-soldato, anzi il poeta-eroe – come lui preferiva definirsi – non lascia nessuno indifferente. Sembra un luogo comune, ma il nome d’Annunzio fa emergere dalla nostra anima sentimenti profondi. Ed è bene subito dire che per qualche decennio, dalla fine della seconda guerra mondiale in poi, Gabriele d’Annunzio nella nostra Italia è stato catalizzatore di denigrazioni e di sarcasmi.

Egli è stato visto come un autore decadente, ammalato d’estetismo torbido e di retorica, afflitto da sentimenti esasperati d’amor patrio, esaltatore della guerra, antistorico cultore della grandezza di Roma e di Venezia. La sua impresa di Fiume è stata poi descritta sia a tinte fosche sia con i colori di un’operetta grottesca. D’Annunzio è stato visto come un provinciale, affascinato dagli ambienti dei ricchi e dei nobili. Ed è stato dipinto anche come un personaggio torbido e amorale, per le sue numerose avventure femminili. In sintesi: il personaggio d’Annunzio è stato visto come in bilico perenne tra l’eccesso e il ridicolo, tra il superuomo magniloquente e il damerino incipriato.

Tanti anni dopo, un fatto paradossale avveniva nella Repubblica fondata sul lavoro: nel vuoto creato dallo sfratto di d’Annunzio, amatore di stuoli di donne belle ed eleganti, e idolo di giovani avventurosi, si installava sugli altari un'icona sacra: Pier Paolo Pasolini, amatore anch’egli indefesso, ma non di donne dell’alta società, bensì di torvi giovani e giovinastri proletari, i cosiddetti ragazzi di vita. Pasolini è stato campione di un nuovo moralismo che vedeva nei valori della bandiera nazionale il segno di una pericolosa involuzione dello spirito. Erano i tempi in cui anche un moderato, blando patriottismo – espresso nei confronti della patria italiana e non di quella nord-vietnamita o di quella della Cina di Mao – era bollato con la paralizzante accusa di “fascismo”.

Tra i tanti giudizi negativi, provenienti essenzialmente da uomini di parte, citerò i seguenti. Natalino Sapegno ha scritto : « Il posto che compete [a d’Annunzio] è piuttosto tra i minori che non tra i grandi. » Scarano Lugnani lo definisce: « L’esempio storico, forse più macroscopico del Novecento, del letterato esplicitamente organico alla classe dominante. »

Le enciclopedie straniere invece, perché aliene da faziosità di parte, riescono a darci di d’Annunzio un ritratto sintetico più giusto. Leggiamo così nell’ultima edizione dell’Encyclopedia Britannica: « Autore italiano, eroe militare, e leader politico, Gabriele d’Annunzio fu scrittore d’Italia nel tardo diciannovesimo e agli inizi del ventesimo secolo. La sua carriera colorita, le sue relazioni scandalose, la sua audacia in tempo di guerra, la sua eloquenza e le sue doti politiche di leader fanno di lui uno degli uomini più straordinari del suo tempo. » Pierre de Montera, nell’enciclopedia francese Universalis, gli tributa un omaggio equilibrato e profondo: « I suoi detrattori potranno avere facile gioco nel rimproverargli il suo erotismo, amoralità, dilettantismo, le sue pose, gli eccessi del suo pensiero, il pericolo di concezioni che hanno fatto di lui il bardo del nazionalismo. Nondimeno, l’ampiezza della sua cultura, la diversità del suo talento, le risorse inesauribili della sua immaginazione, la potenza del suo verbo, la perfezione della sua lingua, gli assegnano un posto a parte, quello di uno scrittore eccezionale. Ha votato il suo genio al culto del bello : egli è poeta e artista, e lo è sovranamente. » Tra gli altri giudizi positivi citerò quello di Eugenio Montale. Il poeta genovese ha affermato che a d’Annunzio devono qualcosa tutti i poeti e gli scrittori contemporanei, anche quelli che ne sembrano più lontani.

A casa mia il nome Gabriele d’Annunzio, quanto più indietro io riesca ad andare, ha sempre evocato un personaggio mitico e leggendario, ma nello stesso familiare perché vicinissimo al nostro cuore. È bene che lo dica subito : io e i miei siamo originari dell’Istria, di quella terra del confine orientale che oggi non appartiene più all’Italia in conseguenza dell’esito della seconda guerra mondiale. L’Istria, Fiume e la Dalmazia sono le terre irredente che tanta parte ebbero nella vita di Gabriele d’Annunzio.  Il ricordo più lontano che mi colleghi al poeta pescarese e alla sua vicenda di uomo d’arme, comandante dei legionari fiumani, è di me bambino – non avevo più di cinque anni – che cantavo sul sagrato di una chiesa nel bosco di Capodimonte, a Napoli, dove vivevo, nel dopoguerra, con i genitori e la sorella in una baracca del campo profughi, lì situato. La canzone diceva, se la memoria mi è fedele : « O Fiume tu sei la più bella ! O Fiume tu sei la più forte ! Porteremo i cannoni alle porte, per difendere, per difendere la libertà. Saliremo sul monte Maggiore, sentiremo la banda suonare e se d’Annunzio ci darà il comando… » Io la cantavo, all’uscita della messa, a beneficio degli altri profughi, divertiti e forse anche un po’ commossi. Questa è una delle canzoni dei legionari fiumani, che, capitanati da d’Annunzio, marciarono su Fiume nel 1919 per rimanervi fino al 1920.

È inutile nascondere questa mia intima riconoscenza verso il nostro poeta-soldato pescarese, perché io sono rimasto fedele a quelle terre – Istria, Fiume, Zara – su cui non sventola più il tricolore italiano, e da cui più di trecentomila italiani sono dovuti venir via in seguito all’“ethnic cleansing” ai nostri danni – la pulizia etnica – avvenuta nel sangue, tra episodi d’inaudita ferocia. Dicevo che, essendo rimasto io fedele a quelle terre, sono rimasto anche fedele al Comandante. E sarà per l’egoismo che la nascita ci dà piantandoci in un suolo – il suolo patrio –  e ponendoci in un momento storico, e costringendoci a fedeltà che per taluni di noi sono indefettibili, io non riesco a vedere Gabriele d’Annunzio come lo hanno visto per tanti anni i suoi detrattori. Devo anche aggiungere che io ho amato ed amo non solo il d’Annunzio soldato, audace aviatore e autore dell’impresa di Fiume, ma il d’Annunzio prosatore e poeta. Il suo « Settembre andiamo… » parla al mio cuore come non lo fa nessuna altra poesia, anche perché io ho vissuto per cinque anni nella terra d’Abruzzo, da convittore, a Teramo, e quindi mi sento legato a quelle terre. Il suo romanzo « Il trionfo della morte » ha esaltato l’inquietudine della mia adolescenza. Ne ricordo ancora la chiusa : « In una lotta breve e feroce come tra nemici implacabili che avessero covato fino a quell’ora nel profondo dell’anima un odio supremo. E precipitarono nella morte avvinti. » Mia sorella poi ha girato con Visconti un film basato sull’Innocente. Altri elementi di comunanza, pur se lievi, con il poeta di Pescara sono numerosi. Egli risiedette per un periodo a Napoli, in Viale Elena, e si recava spesso al caffè Gambrinus. Capodimonte lo vide spesso passeggiare lungo i viali del suo romantico bosco. Io ho conosciuto tutti quei luoghi più che bene, in epoca beninteso molto posteriore alla sua. Ma la vicinanza col poeta-soldato è dovuta soprattutto al fatto che a casa mia e negli ambienti dei profughi giuliani il nome di d’Annunzio era sempre pronunciato con amore e ammirazione.

Fu un balsamo per me scoprire in un’enciclopedia – non italiana – che consultai in biblioteca, dopo poco tempo che mi trovavo qui a Montreal, emigratovi dall’Italia, che d’Annunzio era considerato oltre che un grande uomo di lettere un soldato dall’incredibile coraggio, autore di imprese di guerra straordinarie. Dopo essermi sorbito per tanti anni i pregiudizi riduttivi e denigratori di una critica italiana fortemente politicizzata a senso unico, finalmente constatavo che il volto patriottico e guerriero del Vate pescarese era riconosciuto nel suo giusto valore da chi non subiva le pesanti ipoteche del conformismo vigente nella Repubblica dei partiti.

Molto prima che, in Italia, la memoria del poeta-soldato fosse oggetto di tentativi di ridicolo, vi fu chi cercò di rimettere Italiani e cultura italiana al loro posto. Al discorso con cui, il 5 maggio del 1915, sullo scoglio di Quarto, il trascinante oratore diede la spinta risolutiva all’entrata in guerra dell’Italia contro l’Austria (cui era legata dalla Triplice alleanza), Josef Hofmiller – giornalista-scrittore tedesco molto noto all’epoca – reagì con questo scritto : « E questi strilloni italiani credono di dover difendere la causa della cultura contro noi barbari ? Non la conosciamo forse, la loro cultura ? Piroetta qua e là vestita con sordida eleganza, scarpe lustre, capelli impomatati, profumata come una bottega di barbiere, ciondolando dal caffè al cinema, dal cinema al bar, dal bar al caffè, conosce la doccia per sentito dire, il bagno di mare come gioco di società, l’alpinismo come scampagnata irredentista, apprezza gli uccelli da canto dal punto di vista culinario, degli strumenti musicali il mandolino, della musica le romanze da operetta, della letteratura porcherie parigine dell’altro ieri, lastrica le sue strade con inverosimili monumenti equestri, e si fa rappresentare nei presunti momenti più solenni della sua storia da uno sporco avventuriero letterario, da un lurido pagliaccio il cui nome era pronunciato ancora un anno fa con sdegno e disprezzo da ogni italiano dabbene, perché il suo proprietario era stato costretto a lasciare l’Italia coperto d’insulti e di vergogna. È lui che tiene il discorso a Quarto ; il vecchio caprone bela la beatificazione della castità dei giovani, arringa dal balcone la plebe delirante, conferisce da pari a pari con Salandra e Sonnino, è ingaggiato dal teatro Costanzi per tenere un discorso di guerra ; il magnaccia è ricevuto dal re, diventa cavaliere dell’Ordine dell’Annunziata, e con ciò degno compare del re medesimo… » Nella biografia di d’Annunzio ad opera dell’inglese Gerald Griffin, a proposito dei discorsi guerrieri del Vate di Pescara si può leggere quest'altro giudizio di scherno: « Mentre lo stile fiorito dei suoi discorsi agli eserciti italiani avrebbe fatto sbalordire e sbottare a ridere i soldati inglesi, francesi o americani, si dice che abbia avuto un effetto ispirante sui combattenti italiani. »

In questo e altri giudizi negativi su d’Annunzio si avverte come un’eco del senso di ridicolo che anima il giudizio di tanti stranieri nei nostri confronti. Noi emigrati sappiamo così bene che i popoli più forti godono nel ridicolizzare quelli che le circostanze della storia hanno reso, in un dato momento, più deboli. Questi giudizi suscitano in noi emigrati un’eco ben maggiore rispetto a chi viva in Italia, perché noi emigrati abbiamo subito nella carne i pregiudizi antitaliani fatti valere da popoli più nobili, più alti, di pelle più chiara, più belli, più giusti. Questi sono riusciti a dominare l’intero pianeta, grazie anche allo schiavismo, con colonie e possedimenti, e spesso non hanno voluto riconoscerci altro ruolo se non quello di barbieri, strimpellatori, saltimbanchi, camerieri, giardinieri o mafiosi. Esagero solo un po’. La dignità nazionale, il senso dell’onore, il coraggio, e non solo quello civile – secondo l’accoppiata di termini che oggi va per la maggiore – ma anche e soprattutto quello militare, non sono cose inerti, ma aiutano a delineare il carattere di un popolo e a creare l’immagine che gli altri popoli hanno di questo. Ecco perché il sentimento di ridicolo che d’Annunzio ancora suscita in tanti Italiani rivela le carenze della nostra coscienza nazionale, incapace di catalizzarsi intorno ad una figura così autenticamente eroica, che riscatta tante prudenze, opportunismi e vigliaccherie, di cui la nostra storia è ben ricca, specie da parte di letterati in papalina e pantofole, culo e camicia con il potere. Su di un altro piano storico-militare, certamente molto più elevato, il ricordo della figura di Napoleone è attorniata in Francia da rispetto e venerazione.

 

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