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14 ott – Parlato: le Foibe tornano tabù con il libro di Pirjevic

di Giuseppe Parlato su Libero del 13 ottobre 2009

Pensavamo che la questione delle foibe, dell’esodo e di tutto quello che era successo tra il 1943 e il 1947 nella Venezia Giulia, nell’Istria, a Fiume e in Dalmazia fosse avviata su una buona strada: la storia prevale sulla politica; il metodo degli studi, rigoroso e serio, prescinde dalle passioni e dalle ideologie; si riconosce la necessità di fare entrare quelle vicende nell’ambito di una memoria pubblica.

Lo pensiamo ancora, anche se il volume scritto e curato per Einaudi dallo storico sloveno Joze Pirjevec fa davvero pensare il contrario, spostando indietro nel tempo il clima, l’approccio, le interpretazioni del fenomeno.

Foibe. Una storia d’Italia (pp. XVIII-376, euro 32) è un volume che si muove su un’unica tesi di fondo: le foibe sono un’operazione politica che ha consentito all’Italia, dopo la caduta del Muro di Berlino e dopo la crisi politica di Tangentopoli, di recuperare destra e sinistra in nome del vecchio nazionalismo che aveva gli stessi connotati di quello fascista. E in questa operazione politica un ruolo tutt’altro che marginale viene assegnato al presidente Napolitano, “reo” di avere osato parlare, nel febbraio 2007, di «congiura del silenzio» e di «pulizia etnica», in un discorso teso a realizzare «un’apertura politica alla destra italiana».

Per giungere a queste conclusioni, Pirjevec traccia un quadro mitico nel quale dal 1848 i buoni (gli sloveni) vengono vessati culturalmente e politicamente dai cattivi (gli italiani). Questo giustifica tutto: le foibe, l’esodo, gli eccidi e le deportazioni. Persiste evidentemente la vecchia equazione «italiani = fascisti», che fu la principale causa delle violenze durante e dopo la Seconda guerra mondiale, ma che era anche la base ideologica del terrorismo slavo contro gli italiani degli anni Venti e Trenta e del quale, ovviamente, si tace.

Un particolare rivelativo è costituito dalla ricostruzione dell’eccidio di Porzûs. Pirjevec ricorre al vecchio armamentario togliattiano per gettare discredito sulla brigata Osoppo: era filofascista, anzi, filonazista, era responsabile di «maneggi», doppi e tripli giochi. Alla fine, l’eliminazione dei partigiani anticomunisti (che avvenne, come l’autore ricorda con eleganza, «a rate») viene definita un episodio «marginale» avvenuto all’insaputa del IX corpus jugoslavo. L’autore evidentemente dimentica che dal novembre 1944 all’eccidio (febbraio 1945) si realizza da parte titina una vera e propria persecuzione e snazionalizzazione contro gli italiani, con la connivenza delle formazioni del Pci, come testimoniano molti documenti inglesi: per cui Porzûs non è affatto un episodio marginale, ma è la conclusione di un percorso mirato all’eliminazione dell’unica formazione che non voleva accettare l’annessione del Friuli alla Jugoslavia.

Ma dove l’autore raggiunge l’acme è sulla ricostruzione della questione foibe, che nascerebbe come operazione propagandistica «per approfondire il fossato esistente tra italiani e slavi d’Istria, facendo apparire questi ultimi, oltre che spregevoli, sommamente pericolosi». È curioso come a tale operazione partecipino un po’ tutti: dai capi fascisti della Rsi al vescovo di Trieste, mons. Santin, dai vertici militari del Regno del Sud ai tedeschi, da De Gasperi all’ammiraglio Stone, tutti impegnati a impedire il «ripristino» della frontiera all’Isonzo.

Secondo Pirjevec le esagerazioni sul numero degli infoibati, le descrizioni delle riesumazioni, le stesse operazioni di recupero sarebbero state finalizzate a creare un clima di intolleranza. E in ogni caso, gli infoibati erano quasi tutti fascisti. Quindi non la violenza viene stigmatizzata, quanto la descrizione della medesima.

Anche sull’esodo dei 300mila giuliani, istriani, fiumani e dalmati, la tesi di Pirjevec è sconcertante: se ne andarono in massa perché in quelle terre, «in seguito alla guerra persa rischiavano di ridiventare minoranza»; «indottrinati dal nazionalismo e dal fascismo a sentirsi razza eletta», non potevano sopportare di essere comandati da slavi comunisti.

Le tesi degli storici italiani su questo argomento, seppure ricordate, non vengono discusse. In compenso si spara sul mucchio degli intellettuali, mettendo insieme De Castro, Arduino Agnelli, Galli della Loggia, Valiani, Pansa, Caracciolo, Canfora, Sergio Romano, Melograni e Rodotà; si accusa Sabbatucci, retrocesso da storico a «compilatore» di manuali per le superiori, di avere dato rilievo alle foibe. In qualche caso – per Melograni, Belardelli e Agnelli – l’accusa è di strumentalizzazione. E quando anche la sinistra (Violante e Fassino, soprattutto, e a Trieste Stelio Spadaro) inizia una revisione storica, allora non c’è più nulla da fare: anche la sinistra moderata si è arresa al nazionalismo.

Sui tempi più recenti l’analisi politica si fa più acuta; alle tendenze separatiste della Lega si risponde, per Pirjevec, con due misure: si impone ai calciatori della Nazionale di cantare l’inno e si riapre la questione delle foibe. L’attacco più significativo è comunque rivolto al capo dello Stato, che con il discorso del 7 febbraio 2007 raggiunge «il culmine» del processo di consacrazione delle foibe. Guido Franzinetti contesta i passi principali del discorso del presidente e trova comprensibile che il capo dello Stato croato li abbia definiti «razzisti» perché «rivelavano scarsa sensibilità storica e politica».

Si tratta in definitiva di un passo indietro sulla strada della condivisione dell’approccio scientifico sul problema e della creazione di un comune sentire su momenti controversi della nostra storia.

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