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13 ott – Raduno Dalmati: l’intervento di Lucio Toth

Il Raduno di quest’anno ci trova ad Orvieto, nel cuore della penisola italiana, quelle “terre di mezzo” che sono il nucleo storico della cultura italiana, cioè della nostra cultura e civiltà di dalmati italiani. Dal triangolo Lucca-Urbino-Roma è uscita la nostra identità linguistica e artistica, che si è completata con la cultura veneta e lombarda a nord e con quella napoletana e siciliana a sud.

Di questa identità siamo parte. Ad essa abbiamo contribuito con i nostri artisti: i Laurana, gli Orsini, i Crivelli; i nostri letterati: i Fortunio, i Cerva, i Darsa, i Tommaseo; con i nostri soldati, da Lepanto al Risorgimento, alle due guerre mondiali; con il nostro lavoro e il nostro ingegno, da Colautti a Nutrizio, a Missoni, a Bettiza.

Non per nulla nel luglio scorso a Orvieto, città di guelfi e ghibellini, Monaldeschi e Filippeschi, città “divisa” per eccellenza, si è firmato un protocollo d’intesa tra il Comune di Orvieto e il Comune di Roma. “Dalle identità locali all’unità nazionale” è stato il tema del convegno, voluto dal Sindaco orvietano-zaratino Tony Concina e dal Sindaco della capitale Gianni Alemanno.

Eppure anche Orvieto fu nei millenni e nei secoli città di frontiera. Qui si scontravano per generazioni con odi radicati Etruschi, Latini e Italici. Parlavano lingue diverse, adoravano divinità diverse, seppellivano i loro morti con riti diversi. Quanto bastava per alimentare l’odio etnico. Orvieto era etrusca, Todi umbra, a sud i Falisci, parenti dei Latini.

Nelle Tavole Eugubine gli Umbri pregavano i loro dei di salvarli dai feroci etruschi e dai selvaggi illiri delle coste adriatiche, che si erano insediati nei promontori e alle foci dei fiumi. E i feroci etruschi altri non erano che quelli di Orvieto e di Perugia. I selvaggi illiri devono essere stati i nostri antenati di Zara e di Lussino.

Oggi  purtroppo la penisola balcanica e anche la costa dalmata sono ancora percorse da questi odi e contrapposizioni feroci. Noi ne siamo stati vittime sessanta anni fa.

Potrà un giorno la Dalmazia essere etnicamente pacificata come l’Umbria di oggi? Al Raduno di Pesaro tre anni fa avevo indicato come punti di forza della nostra azione di esuli giuliano-dalmati le tre punte di un’alabarda: la memoria, i diritti, l’identità.

Che cosa abbiamo fatto in questi tre anni di positivo e concreto?

La memoria. L’interesse per le nostre vicende: dalle Foibe e dall’esodo al retroterra storico di queste tragedie, è indubbiamente cresciuto. Sia sul piano mediatico che su quello storiografico e letterario gli spazi si sono allargati e insieme approfonditi. La nostra storia è uscita dalla marginalità cui era stata confinata, malgrado non riesca ad occupare il primo piano delle gazzette e delle librerie. Il web sta dando buoni frutti e la comunicazione intercontinentale è in crescita nelle fasce giovanili.

Prendiamo i numerosi articoli di giornali, a cominciare dai più prestigiosi, come il Corriere della Sera, La Stampa, Il Giornale, La Repubblica, L’Osservatore Romano, L’Avvenire, per arrivare ai giornali locali: molto si è parlato delle nostre cose, dell’Istria, di Fiume, di D’Annunzio, di Zara. Soprattutto il Corriere, con gli amici Fertilio, Stella, Rizzo e lo storico e giornalista Paolo Mieli non ci hanno lesinato paginoni di scritti commossi e corredati di immagini, una volta riservate alla nostra stampa intima di esuli.

Ma anche il Ministero dell’Istruzione, il MIUR, con la giovane e spericolata riformatrice Maria Stella Gelmini, ha organizzato un seminario nazionale per docenti sulle tematiche indicate dalle associazioni degli Esuli e dalla loro Federazione, diffondendo una dispensa alle scuole e proponendo per il 2011 seminari regionali in 6/7 regioni, dal Piemonte all’Abruzzo.

Anche tra i temi inseriti agli ultimi esami di maturità è comparso per la prima volta il tema delle Foibe. Lo hanno affrontato in pochi. I nostri ragazzi sono poco preparati sui temi storici, tanto che finalmente i programmi di storia e di letteratura si appunteranno in futuro proprio sul Novecento, finora trascurato per paura o strumentalizzato per faziosità.

Sul piano statistico i sondaggi commissionati dall’ANVGD hanno dimostrato un notevole aumento nella conoscenza della vicenda delle Foibe, arrivando nel 2009 a oltre il 30% degli intervistati. Più difficile è far passare la conoscenza dell’esodo giuliano-dalmato e delle sue cause.

Ed è qui che dobbiamo battere con più insistenza. Perché nella conoscenza dei massacri ordinati da Tito al confine orientale influisce il fattore politico, cioè l’interesse di parte dell’opinione pubblica di vedere riconosciuti i crimini del comunismo, così come lo sono quelli del nazismo e del fascismo.

Dietro le ragioni dell’Esodo però c’è la verità della nostra storia e il perché delle Foibe stesse: ossia la pulizia etnica di due regioni dove gli italiani erano autoctoni, maggioritari in Istria, a Fiume e a Zara, minoritari nel resto della Venezia Giulia e in Dalmazia. Ma comunque presenti da secoli o da millenni, senza – per noi – soluzione di continuità tra l’epoca romano-bizantina e l’epoca veneziana ed austriaca.

Questa realtà storica non è ancora conosciuta e molti pensano che la persecuzione degli italiani fosse dovuta al fatto che fossimo giunti nella Venezia Giulia e nella Dalmazia in epoca fascista, come importazione coloniale.

E’ una falsa credenza che ci offende profondamente perché pone in dubbio la tradizione italiana linguistica, artistica, giuridica delle nostre terre, testimoniata dalle pietre delle case e delle chiese, dalle opere d’arte, dalle biblioteche e dagli archivi, dalle opere letterarie, dai documenti amministrativi e notarili, dalla continuità generazionale delle nostre famiglie.

Per questo è in atto da parte di centri qualificati delle nostre associazioni, come Coordinamento Adriatico, la Società Dalmata di Storia Patria, la Società di Studi Fiumani, la Fondazione Rustia Traine un’approfondita ricerca negli archivi italiani, croati e sloveni.

L’esperienza più interessante è che, superate qua e là alcune resistenze ideologiche o nazionaliste, la ricerca ha coinvolto studiosi croati e sloveni che vi hanno dedicato lo stesso entusiasmo e la stessa acrivia scientifica.

La ricerca congiunta richiede quindi un dialogo aperto e non pregiudiziale. Se si vuole convincere l’interlocutore della nostra buona fede e fargli riconoscere i tanti documenti cartacei che dimostrano l’uso diffuso della lingua italiana o delle lingue romanze che hanno preceduto l’istro-veneto e il dalmato-veneto, dobbiamo essere altrettanto pronti a riconoscere documentazioni molto antiche nelle lingue slave o addirittura in alfabeto glagolitico che testimoniano la presenza di popolazioni che quelle lingue parlavano e con noi convivevano.

Di fronte alla nostra sincerità e buona fede le barriere cadono e quando restano sono solo frutto di vecchie propagande ideologiche e scioviniste.

E’ una linea questa totalmente opposta alle strumentalizzazioni nazionalistiche e mono-etniche del passato. Queste sono ancora diffuse nelle scuole e nella cultura corrente in Croazia e Slovenia. Superarle e sconfiggerle  rappresenta una vittoria culturale di non poco conto. Far capire che Hvar si può chiamare anche Lesina e così si è chiamata per secoli, come Ossero o Lussino, Curzola o Perasto non sono battaglie nominalistiche.

Per noi sono sostanza storica, perché non vogliamo che insieme agli italiani infoibati o annegati in mare si infoibi anche il ricordo di generazioni di latini, di veneti, di italiani che quelle città hanno costruito, hanno reso prospere e difeso nei secoli con indomabile coraggio e tenacia.

Ecco allora il valore di iniziative per ripristinare la toponomastica italiana e veneta nella cartografia, nei depliant turistici, nelle stesse targhe stradali che indicano il nome delle vie delle nostre antiche città. In questa battaglia non vogliamo essere lasciati soli. E ci conforta l’aiuto di tanti giornalisti come Gian Antonio Stella, Paolo Mieli, Camillo Langone, Gelminello Alvi, Stefano Zecchi.

Come ci conforta l’aiuto di vecchi amici politici come l’On. Carlo Giovanardi o della nuova amica On. Daniela Melchiorre che condividono l’importanza di questa nostra battaglia culturale.

Un altro passo avanti – per quanto oggetto di polemiche inevitabili – è stato il Concerto di Riccardo Muti a Trieste il 13 luglio scorso. La figura del Maestro Muti e della sua orchestra ha richiamato su Piazza dell’Unità l’interesse dei media internazionali, risultato non facile come ben sapete. L’incontro dei tre Presidenti della Repubblica Napolitano, Türk e Josipović e l’omaggio congiunto all’antica sede del Centro culturale sloveno di Trieste e al monumento che ricorda l’”Esodo di 350.000 Istriani Fiumani e Dalmati” sono stati interpretati non solo come simbolo di riconciliazione, ma soprattutto – ed è questo che vale per noi – come riconoscimento della nostra presenza millenaria in quelle terre e dell’entità del nostro esodo, che così viene per la prima volta accettato nella sua realtà storica, che noi sappiamo insopprimibile, ma che la maggior parte degli italiani, degli sloveni e dei croati mettono ancora in dubbio.

Se voi pensate quanto sia difficile ottenere qualcosa del genere per gli oltre 10 milioni di tedeschi dell’Est vi rendete conto del cammino che abbiamo percorso e dell’intelligenza politica che abbiamo saputo mettere in atto, valorizzando la particolarità delle nostra vicenda e l’altissimo prezzo che noi Giuliani e Dalmati abbiamo pagato per far uscire la Nazione dall’umiliazione della sconfitta militare. E mi sembra giusto a questo punto leggervi una pagina che ho trovato giorni fa e che conferma con l’immediatezza del momento quello che avevamo sempre pensato. Vale la pena ascoltare questa pagina drammatica, contenuta in un verbale del Comitato Giuliano di Roma dell’8 luglio 1947, in cui si racchiude tutto il significato del nostro sacrificio e del debito incolmabile che l’Italia tutta ha verso di noi. L’On. Fausto Pecorari, deputato all’Assemblea Costituente, riferisce al Comitato Giuliano di cui fa parte quanto avvenuto la mattina nell’apposita commissione:

Sforza – all’epoca Ministro degli Esteri – ha dichiarato che se il trattato di pace sarà ratificato entro il 13 corrente l’Italia avrà un posto di primo piano alla riunione indetta a Parigi per l’attuazione del Piano Marshall; mentre se non dovesse ratificarlo non sarebbe esclusa dalla Conferenza, ma vi sarebbe accolta in condizione di inferiorità, non sarebbe designata tra le prime nazioni e forse non sarebbe nemmeno ammessa ufficialmente alla discussione, ma sarebbe tenuta fuori dalla porta…

Delle quattro potenze tre hanno ratificato il trattato. La Russia lascia intendere di voler rimandare la ratifica al prossimo autunno. E’ evidente che la Russia non vuole ratificare e le sue intenzioni si lasciano comprendere attraverso l’atteggiamento del PCI. Essa non vuole che l’Italia ratifichi. Mentre le potenze anglosassoni richiedono la ratifica da parte nostra entro il prossimo 12 corrente, facendo chiaramente comprendere che in caso di mancata ratifica ci verrebbero fatti mancare gli aiuti ed i rifornimenti di cui l’Italia ha assoluta ed improrogabile necessità…

Di fronte ad un dilemma posto in forma tanto ricattatoria è difficile non veder quale è la sola via che resta al Governo italiano: quella della ratifica.”

Il senso di punizione e di umiliazione che l’Assemblea Costituente avvertiva è stato poi dimenticato. Oggi il riconoscimento dell’esodo da parte dei due Presidenti di Croazia e Slovenia ha anche il senso dell’ammissione di una massiccia presenza italiana nelle province passate alla ex-Iugoslavia. Un “vulnus” quindi alle tesi nazionaliste e comuniste slave che questa presenza negano. D’ora in poi nessuno potrà venirci a dire che quelle terre erano “tutte slave”, per mettersi la coscienza in pace sulla viltà italica nell’averci abbandonato senza tanti riguardi al nostro destino.Certo i negazionisti e i riduzionisti non abbasseranno le armi, come non lo hanno fatto quelli che ancora negano la Shoah. Ma la storiografia italiana più seria e meno sospetta, come i recenti lavori di Marina Cattaruzza, Raoul Pupo, Roberto Spazzali ed Elio Apih, hanno fatto giustizia di queste tesi, dimostrando con i documenti alla mano dei comandi iugoslavi e dell’OZNA che la violenza dell’occupazione/”liberazione” iugoslava nel 1944 in Dalmazia e nell’autunno 1943 e primavera del 1945 nella Venezia Giulia aveva come scopo preordinato una strategia di eliminazione fisica preventiva di chiunque, per le sue convinzioni o il suo passato, potesse opporsi non solo all’instaurazione di un regime comunista ma all’immediata annessione di tutta la regione, fino al Friuli, alla Iugoslavia di Tito. Non fu la rabbia della popolazione slovena e croata, altamente minoritaria nelle città e nell’Istria costiera, a causare i massacri degli italiani nelle foibe e nel gulag iugoslavo, ma un disegno programmato dall’alto per cancellare o sottomettere quanto di italiano vi era nella regione.

Scrive Apih che nell’eliminazione massiva degli italiani modalità e pratiche erano “tipiche dei rivoluzionari organizzati”, come l’uso delle “corriere della morte” e delle mani legate dietro la schiena con il filo di ferro. Si trattò quindi di un’azione politica coordinata, frutto di esperti del terrore appositamente addestrati, come quelli che avevano operato a Katin.Anche nell’ultimo libro di Giampaolo Pansa ( “I vinti non dimenticano” ) si torna a parlare degli eccidi operati dai partigiani iugoslavi in Istria e in Dalmazia. Solo le donne trucidate nella nostra regione sarebbero oltre duecento. Non si può proprio dire che della nostra vicenda non parli nessuno.

Molto c’è ancora da fare soprattutto nelle scuole. Ma le occasioni che ci vengono offerte non mancano. La strada è aperta. Sta a noi percorrerla con decisione. Sul versante dei diritti invece i progressi sono stati pochi. Malgrado la buona volontà annunciata dal governo e rappresentata dal Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta, che preside il Tavolo di coordinamento Governo-Associazioni degli Esuli, e dai due vecchi amici i Sottosegretari Carlo Giovanardi e Roberto Menia, non si è fatto nessun passo avanti, né sul fronte degli indennizzi né su quello delle restituzioni.

Se qualcosa si è mosso è stato da parte croata. Ma non è gran che. Come saprete la Corte Suprema di Zagabria ha pronunciato una sentenza il 26 maggio scorso accogliendo la domanda di una cittadina brasiliana. Di nuovo c’è soltanto che il cittadino di uno Stato che non abbia stretto accordi con la Croazia o la ex-Iugoslavia ha diritto alla restituzione (o indennizzo dell’equivalente) anche se non vengono stipulati nuovi accordi. Purtroppo però l’Italia dal 1954 al 1983 ha stipulato accordi disastrosi con la ex-Iugoslavia, pagando con i beni degli “optanti” – cioè di noi che siamo qui per aver scelto l’Italia senza esitazioni – i danni di guerra dovuti a quel bel regime dall’Italia fascista.

Quindi per la stragrande maggioranza di noi niente! Esistono però migliaia di casi di non optanti o di altre categorie di esuli che potrebbero rientrare nella breccia aperta da questa sentenza della Corte Suprema. Bisognerebbe che il nostro Ministro degli Esteri – che è uomo d’onore – entrasse attraverso questa breccia e riuscisse a concludere un nuovo accordo con la Croazia, paese amico, cui stiamo aprendo le porte dell’Unione Europea. Vediamo se sarà tanto amico!

Per alcuni di voi potrebbe essere una via per soddisfare almeno qualcuno dei nostri diritti.

Il tema dell’identità si presenta oggi estremamente attuale. Appartenenza e identità etnica e nazionale sono i problemi con i quali si trovano alle prese tutti gli Stati-nazione democratici, dalla Gran Bretagna alla Spagna, agli stessi Stati Uniti d’America.

E anche la nostra Italia a 150 anni dall’unificazione deve fare i conti con tendenze centrifughe che assumono a tratti toni pericolosi. Le delusioni o il semplice scontento per l’inadeguatezza dello stato nazionale a risolvere i problemi concreti del territorio – dalla questione meridionale che sembra irrisolvibile all’insofferenza del Nord-Est sempre più inquieto – si traducono in nostalgie borboniche da un lato, asburgiche dall’altro che suonano strane al nostro animo e alle nostre tradizioni familiari e locali, dove l’irredentismo era sinonimo di unità nazionale, non certo di smembramenti che ci riporterebbero ad antichi servaggi verso potenze straniere. La Lega se da un lato contiene queste spinte con italica moderazione, compensata dalle violenze verbali, dall’altro diffonde inevitabilmente una cultura anti-unitaria, erede del disprezzo marxista e delle riserve cattoliche verso il Risorgimento.

Oggi tutti si affannano, dalla CEI agli ex-comunisti, a difendere l’unità nazionale. Ma noi non dimentichiamo di essere stati male accolti e accusati da quegli stessi pulpiti di nazionalismo per il nostro amore verso questo Paese.

Il nostro contributo al sentimento di solidarietà nazionale può essere prezioso nel momento in cui si va ad attuare una robusta riforma federalista, che speriamo rafforzi l’unità della Nazione, restituendo insieme dignità e memoria ad antiche tradizioni politiche regionali, come quella della Serenissima Repubblica di Venezia, cui è legata tutta la storia di noi dalmati.

Come nei lunghi mesi della resistenza di Venezia nel 1848-49 il Tricolore portava inquartato il Leone di San Marco, così nell’animo dei Veneti non vedo perché debba essere separato ciò che il sangue ha unito nelle barricate del 1848, nelle trincee del 1915-18, nei tragici anni 1940-1945.

Questo per quanto riguarda questa sponda dell’Adriatico. Perché c’è un problema di identità che ci interessa anche dall’altra parte di questo nostro mare.

E’ abbastanza evidente, come dato di realtà che si manifesta in varie forme, che esiste una identità dalmata che non annulla e non si confonde con l’appartenenza e l’identità nazionale, sia essa croata, italiana, serba o montenegrina. Ma convive con essa nelle stesse persone. Senza con questo creare imbarazzi o incertezze psicologiche. Né si tratta semplicemente di influenze dell’ambiente naturale, ma piuttosto di una tradizione culturale comune che ha forgiato caratteri diversi, ma con un substrato antropologico comune.

Amputare una delle componenti di questa cultura – come può essere la nostra di origine romanza, veneta e italiana – significa alterare la natura stessa di un’identità regionale.

E’ a questa comunanza culturale, non esclusiva ma inclusiva, che noi dobbiamo appellarci per riacquistare piena cittadinanza nella nostra terra di origine e spezzare l’esclusione che deriva dallo scontro nazionale dell’Ottocento e del Novecento e dall’esodo forzato che ne è stato la conseguenza.

Credo che la Dalmazia di oggi non abbia che da guadagnarci.

E sembrerà allora meno aliena dalla realtà la proposta coraggiosa di Giovanardi di riportare nelle strade e nelle piazze del centro storico di Zara i nomi delle nostre vecchie calli e campielli dell’epoca austro-veneta: Calle Carriera, Calle dei Papuzeri, Calle dei Tintori, Piazza delle Erbe; ben più omogenee all’ambiente naturale di tutti gli altri toponimi che la politica ha imposto alle nostre rive e ai nostri luoghi di incontro. Calle Larga resterà sempre Calle Larga e la Riva Nova sarà sempre Riva Nova. Re e Marescialli passano. Gli uomini e le donne che hanno vissuto quei luoghi per generazioni meritano assai di più di dare ad essi il nome che portavano inciso sulle pietre angolari. Lavoriamo allora e progettiamo insieme con coraggio e fantasia iniziative che valgano a restituire alla Dalmazia la sua anima plurale, per salvarne non solo la memoria ma l’identità tra le regioni storiche d’Europa, uno dei nomi più antichi che una terra abbia avuto nel corso dei millenni. 

“Mia bella Dalmazia, Dalmazia ti chiami…”

Mia moglie Susanna mi ha raccontato un suo sogno qualche settimana fa. Tanto debbo averle comunicato i miei sentimenti e i miei incubi. In una notte nebbiosa delle barche a remi portano silenziosi sulla riva di Zara una folla di profughi, donne e uomini anziani vestiti di grigio. Si avviano attraverso le strade fiancheggiate di rovine verso il Duomo. Ma la cattedrale ha le porte sbarrate da travi incrociate e devono tornare in silenzio alle loro barche a capo chino. Solo un cane legato al timone segue le barche sulla loro scia mentre si allontanano dalla città. Il cane, come sapete, rappresenta nei simboli onirici la nostra affettività. E’ l’amore per Zara che ci segue, unico conforto.

Ma io ho un altro sogno ricorrente: giro per le strade della nostra città alle luci dell’alba e tra le ultime rovine della guerra i croati stanno facendo grandi ricerche archeologiche. Ne escono rocchi di colonne, epigrafi romane, leoni veneti. E i giovani studenti croati, ragazzi e ragazze, che stanno eseguendo gli scavi mi mostrano con orgoglio quei mosaici e quei leoni, come se fossero qualcosa che mi riguarda da vicino e riguardi anche loro. E mi sorridono come per un’intesa segreta.

E’ un sogno naturalmente. Ma noi siamo fatti della materia dei sogni, ci dice Shakespeare. E ai sogni dobbiamo credere. Contro le false certezze delle ideologie dell’Ottocento e del Novecento dobbiamo ritrovare il senso del mistero che circonda le nostre vite e le vite dei popoli.

Esplorare con gli strumenti della ragione e della coscienza morale i diritti degli uni e degli altri. Le speranze, le attese, le delusioni, le vendette, i rancori. Non per allinearli uno accanto all’altro in un relativismo passivo e rassegnato, ma per ricostruire una scala di valori che dia un senso alla storia, una ragione al sacrificio dei nostri caduti, al riposo dei nostri morti.

Le radici della nostra memoria, del nostro pensiero, della nostra cultura – radici ebraico-cristiane assetate di giustizia e di verità, radici della classicità grecoromana che chiedono chiarezza di diritti e amore della bellezza – ci possono aiutare a non smarrirci nella nostra piccola storia, come una scialuppa nell’oceano del divenire. Ma ad essere luce anche per gli altri: momento di riflessione e di scoperta di valori comuni, speranza di concordia e di comprensione reciproca. 

E’ una ricerca di senso che serve a noi, genti dell’Adriatico orientale, per la nostra tormentata storia, ma serve anche agli altri italiani ed europei, frastornati oggi da cambiamenti epocali che ci obbligheranno sempre più a convivere con uomini e donne venuti da altri continenti, da culture lontane che non conosciamo.

Se non sappiamo trovare fondamenta comuni su cosa costruiremo la società di domani?Potremmo fare della Dalmazia, con le nostre piccole forze, un cantiere di ricerca comune, un esempio di superamento degli odi e delle incomprensioni. Dare al nome della nostra terra un significato nuovo: la conoscenza serena del passato che si fa strumento di convivenza per l’avvenire.

Ma non erano piccole le nostre città, minuscoli propugnacoli su isole e promontori? Ci ha mai spaventato, a noi dalmati italiani, l’essere pochi?

Lucio Toth

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