di GABRIELLA ZIANI su Il Piccolo del 12 settembre 2009
Una giovane e graziosa Catherine Spaak in manifesto e una scarpa consumata in bacheca. Sotto vetro una bambola di pezza rosa e matite colorate, più in là un rastrello di legno per la paglia, sui pannelli foto gigantografate di partenze drammatiche, in mezzo un cumulo di sedie coi cartellini dei trasportatori ancora appiccicati, scritti a inchiostro. Gli istriani, i fiumani, i dalmati dell’esodo si portarono via tutto il possibile, perfino le targhette metalliche col cognome svitate dalla porta d’ingresso, perfino il messale e i quaderni di scuola dei figli, i loro giornali a fumetti, e anche appunto le sedie di casa, che poi non furono in grado di riarredare le case di qui, e sono rimaste fino a oggi nel Magazzino 18 del porto.
Adesso alcuni pezzi-staffetta sono entrati in via Torino, nel luminosissimo secondo piano che in occasione del raduno mondiale dei dalmati diventa set di prova del museo ancora da allestire. La Spaak appare come attrice della «Calda vita», film tratto dal libro di Pierantonio Quarantotti Gambini, e si trova accanto a un cimelio a lei distante le mille miglia, un drappo blu con il ricamo della capra istriana: bandiera che fu posata sulla bara dello scrittore Pierantonio e anche di suo padre.
Gli attrezzi da lavoro scelti da Piero Delbello, direttore dell’Irci che gestirà il museo, sono stati tutti restaurati da Roberto Starec. C’è il carro di vimini e c’è il rastrello, c’è il grande alambicco di rame per produrre la grappa, di fronte sta il tavolo dell’orafo piranese che a Trieste continuò, con questi attrezzi tuttora perfetti, a creare anelli e catenelle, e la bottega di farmacia ancora con le bustine di prodotti dell’epoca chiuse in pacco. Da un baule fuoriescono, come da un negozio di trovarobe buono per una pellicola d’epoca, pizzi e ombrellini, scarpe col tacco, cappelli e attrezzi da calzolaio. Più là guantini e borsette, ciprie e occhiali da sole. «A dividere gli attrezzi dai quadri, i pezzi di storia della cultura materiale dalle memorie casalinghe – spiega Delbello reduce dal velocissimo allestimento realizzato assieme al pittore Athos Pericin – abbiamo sistemato una Pietà del XIX secolo, che forse è anche precedente».
Questo palazzo restaurato è di grande bellezza e pienamente suggestiva è l’eleganza simbolica della stele azzurra che irrompe nel vano interno su cui s’affacciano i ballatoi, rientrati per dare sagoma a questo «buco» con parete in pietra, una memoria stilizzata di foiba. La luce ”bluette” dà spicco all’opera realizzata da Livio Schiozzi e si ripete sul fondo, gelida ma quieta. Delbello ha creato un minipercorso dalla sala di esposizione a questo luogo di silenzio tappezzando il pavimento con foto di gente che nelle foibe vere ha perso la vita. Un suggerimento appena, senza clamore.
La musica è diffusa in tutti i quattro piani, e dal quarto, un sottotetto spiovente con travi a vista, guardando da una finestra in direzione piazza Venezia s’intravedono di spalle le statue sulla sommità del museo Revoltella, una visione speciale, non ripetibile da altre angolazioni.
In questo palazzo, nella saletta del piano terra, si terranno le riunioni ufficiali dei dalmati che provengono da mezzo mondo. Un manifestino incorniciato, firmato da Luigi Vidris, ricorda la prima ”convention” in assoluto, quella del Vittoriale a Roma nel 1949. Accanto un celebre manifesto di Argio Orell, una «Marina istriana» di Ettore Dick e una china di Giuseppe Matteo Campitelli intitolata «Martire». Il drammatico quadro di Dante Pisani, appena donato, mostra due ”maschere” di donne urlanti con le mani su una cassa da cui escono lettere sparse dell’alfabeto. E poi c’è il bellissimo ritratto della madre firmato dalla fiumana Anna Antoniazzo, «morta qui a Trieste – dice Delbello -, era in una casa di riposo».
Ma il segno nello stesso tempo più piccolo e più grande che il direttore dell’Irci ha scelto fra tanti per dire come la vita si sia trasformata in storia, e come la distruzione di un tessuto umano si sia alla fine rigenerata in conservazione di qualcosa di più che non «masserizie» invecchiate, è un piccolo scapolare nella vetrinetta dei bambini. «Si chiamava ”balighetto” – racconta -, nell’antica Istria era usato dalle levatrici che vi riponevano la placenta dei neonati ”nati con la camicia”. L’oggetto veniva appeso al collo dei bimbi, perché si credeva che con quella fortuna difendessero la terra da streghe e stregoni».