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09 lug – Ravignani: Trieste città in crescita ma divisa

Intervista di PAOLA BOLIS su Il Piccolo del 9 luglio 2009

Adesso lo può dire: quell’anno e mezzo trascorso dalla presentazione delle dimissioni alla nomina del suo successore è finito per trasformarsi in un’attesa «un po’ logorante». Eppure, che le cose non sarebbero andate per le spicce Eugenio Ravignani, vescovo della diocesi di Trieste dal 1997, lo sapeva fin dall’inizio: «Questi non son passi che si possono fare da un momento all’altro». Lui, «soprattutto nei primi tempi», ha atteso «con grande tranquillità». Ha aspettato «in silenzio» di sapere a chi avrebbe lasciato la guida di quella Chiesa triestina che, afferma, «consegno al vescovo Giampaolo viva, vivace». Una Chiesa che nei suoi dodici anni di episcopato, dopo i quattordici da vescovo a Vittorio Veneto, ha puntato in particolare su «dialogo, attenzione alla povertà e ai giovani, impegno nel superamento di comprensibili difficoltà di rapporti». Senza trascurare gli stranieri, gli extracomunitari. Persone toccate da quel pacchetto sicurezza del governo che in materia di immigrazione Ravignani, nato a Pola il 30 dicembre del 1932, definisce semplicemente «anticristiano e antiumano. Perché un uomo non può chiudersi alle necessità altrui: sennò che Vangelo predichiamo?»

Monsignor Ravignani, le è pesato questo anno e mezzo?

Mentre le cose si prolungavano sentivo di non poter prendere decisioni che impegnano il futuro: io spero di no, ma anche la guida della diocesi può averne risentito. Del resto, ora credo di poterlo dire: quando nell’aprile 2007 annunciai al Papa che gli avrei presentato le dimissioni a fine anno, ”Lo so – mi sorrise – ma lasciamo scorrere il tempo, ché lei è ancora giovane…”

A quali motivi va ascritto il ritardo nella nuova nomina?

Non so quali altre difficoltà oltre a quelle che posso conoscere si siano incontrate. Certo questa è una diocesi ridotta quasi alla sola città. E poi occorreva fare venire a Trieste un vescovo che avesse una forte esperienza, anche da un punto di vista dottrinale; una apertura pastorale e una capacità di inserirsi in un contesto storico e attuale che non sono dei più facili; e che avesse attenzione alla composizione della nostra città, da sempre luogo di incontro – non però occasionale, bensì stabile – di lingue e tradizioni diverse. In questo senso l’esperienza di Crepaldi in tanti anni al Pontificio consiglio di giustizia e pace, dove ogni giorno ha avuto davanti tutto quello che è problema sociale, di riconoscimento di diritti, di persone e di popoli gli sarà indubbiamente di giovamento.

Qualsiasi sacerdote dovrebbe essere pronto a trattare realtà complesse.

È bene che persone preparate affrontino certi problemi. Che ogni prete debba avere un animo aperto a chiunque, nella nostra visione cristiana è scontato. Qualche volta può essere più difficile viverlo.

Cosa crede di avere portato in questa diocesi?

Fare bilanci è difficile. Quello che ho avuto da questa Chiesa, che mi ha dato la gioia di essere prete ordinato da Santin e vescovo ordinato da Bellomi, ho cercato di restituire. Credo che, non solo con il mio lavoro, abbiamo portato un impulso ancora più forte al dialogo tra culture, tra popoli e lingue diversi: un dialogo con le comunità non cristiane, con la comunità ebraica e con quella islamica. La Chiesa ha poi cercato un dialogo con la propria storia: ci sono stati momenti di riflessione che hanno proiettato il futuro verso scelte di rispetto della memoria e insieme di ricerca della comprensione, dell’amicizia e della fraternità tra quanti vivono maggiormente divisi da confini. Non parlo solo di confini statali, ma di quelli che passano per le coscienze mentre alcune ferite rimangono nel cuore di tante persone che vanno guardate con profonda attenzione e con delicata e affettuosa pazienza. Credo sia stato fatto quello che Giovanni Paolo II chiamava ”purificazione della memoria”, che potrà crescere ulteriormente. Io credo che la diversità non sia mai opposizione, mai estraneità, ma possibilità di incontro per una ricchezza comune.

Purificazione della memoria, lei dice: non condivisione?

Rispetto chi crede si possa arrivare a una lettura condivisa della storia, ma io ancora non la vedo. La purificazione della memoria è invece un atto di volontà, un impegno morale.

Fin dall’inizio del suo episcopato lei ha spronato la città a superare le divisioni. Crede che oggi ce ne sia ancora bisogno?

Io non credo che questo momento di difficoltà sia ancora del tutto superato. Parlo ancora di valori come la comprensione reciproca, l’amicizia ritrovata, la diversità di culture. Che però la città – e il vescovo qui non c’entra – in questi dieci anni abbia percorso un cammino molto significativo è fuor di dubbio.

Le divisioni cui lei si riferisce si riflettono anche nella Chiesa locale?

Se parliamo della comunità di lingua slovena no, c’è una bella fraternità con tutti. Ciascuno di noi può avere come cittadino preferenze e idee, ma dentro la nostra Chiesa non c’è frattura.

Torniamo al percorso compiuto dalla diocesi.

La nostra Chiesa si è aperta sempre più all’attenzione verso la povertà. La Caritas, attiva oggi non solo in Trieste ma anche nelle diocesi delle vicine due Repubbliche, ha fatto un lavoro molto serio. Ho incontrato la realtà della povertà a Trieste, che qualcuno sa bene non considerare o forse non vede perché l’opulenza della città la nasconde. Ma è disperante vedere la solitudine in cui talora viene vissuta l'anzianità. E quando si conoscono famiglie alle soglie della miseria, ci si chiede cosa si possa fare: qui la radice è l’umanità, la fede viene dopo. Ecco, qualcuno pensa che l’attività della Caritas sia orientata più verso gli immigrati che verso i locali, ma non è vero: i report ci dicono che la povertà è locale. Credo che la Chiesa si sia fatta presente su questo tema, in collaborazione – ed è una cosa molto bella – con le istituzioni.

Le istituzioni, appunto: che rapporto c’è stato in questi anni?

Sempre molto corretto e direi anche personalmente molto amico con tutti quanti si sono succeduti alla guida della città.

In passato soprattutto ci sono state tensioni latenti con una parte della città per alcune sue prese di posizione. Come le ha vissute?

Sono cose che non passano senza lasciare un segno, ma non drammatizzerei. Ciò che sentivo di dover fare corrispondeva a un dovere preciso. Non ho mai mancato verso nessuno, ma non ho mai voluto nemmeno diventare quello che escludeva altri. Un vescovo è padre di tutti, non di una nazione o di una politica. Mi sono inserito nella linea dei miei predecessori: rispetto per chiunque vive nella Chiesa e ha diritto che il suo vescovo lo rispetti nella sua identità, lingua, cultura.

Vescovo di tutti, non di una parte. In questo senso come valuta il ddl sicurezza del governo? Il segretario del Pontificio consiglio per i migranti Agostino Marchetto ha parlato di norme che porteranno dolore.

Io non giudico le persone, giudico e valuto quei provvedimenti che recheranno ai clandestini e agli altri respinti un accrescimento di sofferenza. Risalgo a un’altra posizione, non quella di Marchetto ma di un vescovo che sta sul campo, a Mazara del Vallo: Domenico Mogavero, le cui parole condivido. Non è possibile chiudersi all’accoglienza verso chi cerca di trovare qui libertà, giustizia, lavoro, casa e pace. Il bisogno può essere quello della povertà locale, ma quello più grande è l’immigrazione. Che certo va regolata e disciplinata, ma non repressa: è una cultura dell’accoglienza quella che andrebbe promossa, non indiscriminatamente né puramente dal punto di vista del consenso, ma in modo serio e ordinato. In questo senso Trieste è luogo dell’accoglienza per antonomasia. Chi fece le fortune di questa città nel Settecento? Quelle presenze vi si sono sì o no incarnate, sono sì o no ancora in parte ragione della prosperità di questa città? E oggi, tutte quelle persone che hanno trovato qui un lavoro onesto e la possibilità di essere accanto agli altri in parità di diritti non sono forse le stesse che garantiscono l’attività di certe industrie, così come per certe realtà famigliari una presenza amica e utile?

Dopo il ddl è scoppiato il caso del «libertinaggio atto grave» denunciato dal segretario generale della Cei Mariano Crociata.

Io dico che un richiamo deciso a una rigorosa moralità da ritrovare era atteso da tempo, perché il degrado appare davanti a tutti.

Tutti hanno letto quelle parole in relazione alle frequentazioni femminili del presidente del Consiglio.

Non farei collegamenti diretti con persone e cariche che riguardano poi anche una presenza internazionale. Né voglio accreditare interpretazioni dell’uno o dell’altro.

In ogni modo la Cei negli ultimi tempi ha avuto più volte parole dure contro il governo, a differenza di un Vaticano che si è mantenuto estremamente prudente.

La Cei è l’organismo della Chiesa che è in Italia, la Santa Sede è il luogo in cui tutto l'universo si incentra: il Papa quando parla si rivolge al mondo, mentre in questo Paese abbiamo il piccolo ma ricorrente difetto di riferirne subito qualsiasi espressione all’Italia. Quanto alla Cei, io penso sia sempre meglio la chiarezza. Prendere posizione – con molto rispetto come sempre, perché siamo rispettosi dello Stato – è un dovere. Non credo sia rispettoso il tacere.

Torniamo a Trieste. Il momento più bello di questi suoi anni?

Quando un vescovo ordina prete un giovane. Ma altrettanto belli sono i momenti passati a contatto con la gente.

E le difficoltà?

Non ne saprei dire una in particolare. Grazie a Dio un vescovo comunque non le affronta mai da solo, ma con i suoi collaboratori.

C’è qualcosa che sente in particolare di non essere riuscito a fare?

Su diversi aspetti si finisce per dire "purtroppo…" Se qualcosa c’è ne sento il rammarico. Ma forse non è stata solo buona volontà mancata, la mia, bensì un insieme di circostanze. Avrei desiderato per esempio che il seminario continuasse l’attività a Trieste, e avrei voluto portare a termine il restauro del seminario stesso: in parte lo abbiamo realizzato, in parte il vescovo Giampaolo lo avrà da completare.

Su cosa puntare, secondo lei, per il futuro della città?

Io dico che una città senza presenza industriale non progredisce. La Wärtsilä sta crescendo, la Fincantieri – sebbene a Trieste mantenga la sola direzione generale – anche. La Ferriera è il problema che ha angosciato Bellomi in passato, e poi me. Vanno contemperate le esigenze ambientali e quelle dell’occupazione: bene se si imbocca una direzione che possa conservare i posti di lavoro, perché a me pare impossibile che chi è rimasto a Servola fino ai 45-50 anni possa essere, come si dice, riconvertito. Quello dell’industria è senz’altro un problema. C’è un avvenire nel turismo, che indubbiamente può interessare la città perché porta ricchezza e cultura. Io però credo che il futuro di Trieste stia nell’innovazione e nella scienza. Anche se temo non ci sia un vero dialogo tra quest’ultima e la città.

Perché?

Vedo i campus scientifici distaccati, mi piacerebbe che si raccontasse ciò che fanno così che la città non solo si onorasse di averli, ma fosse consapevole dell’immensità del patrimonio che costituiscono. Scienza e innovazione, dunque. A Roma il Papa, il cui humus è rimasto universitario, mi ha chiesto come andasse con l’università: gli ho spiegato che abbiamo tanti studenti, e tanti di essi stranieri. ”Lì ci sono i giovani – mi ha risposto – e sono loro che ringiovaniscono anche una città”.

In questi anni lei ha invitato più volte Trieste alla concordia, alla condivisione di progetti di sviluppo. Vede ancora tanta litigiosità?

Trieste presenta a volte situazioni differenti. Da una parte c’è indifferenza, malcelato scontento; dall’altra ci sono persone che su qualunque scelta finiscono per litigare. Se non perdessimo tanto tempo nel comporre i litigi, lo potremmo usare per costruire quello che vogliamo fare insieme. Ci sono progetti che potrebbero essere già stati realizzati: la Ferriera, un nodo che si trascina da tempo. O il Porto vecchio…

Come ha visto cambiare la città dalla caduta dei confini in poi?

Ho visto la festa al posto di blocco nel dicembre del 2007. La caduta dei confini dal punto di vista politico e commerciale e dei rapporti culturali può essere una cosa molto buona, ma potrebbe crescere di più. Il grande avvenimento forse non ha ancora dato i risultati che si pensavano possibili. Ci vuole del tempo.

A cosa vorrebbe dedicarsi quando lascerà la diocesi al nuovo vescovo?

Avrò più tempo per studiare. Starò il più ritirato possibile, ma non estraneo, collaborando con il nuovo vescovo. L’ho detto a Crepaldi: spero di potere riprendere il ministero semplice, celebrare in parrocchia, mettermi a disposizione della gente.

Dopo la nomina di Crepaldi ha ricevuto dei messaggi dalla città?

La gente comune è quella che dà più gioia. Sono andato domenica scorsa a cresimare a Opicina, poi a Servola, è stato bello. Ma mi hanno commosso due anziane signore che ho incontrato l’altro giorno per strada. ”Monsignor, la savesi che dispiazer grande che go”. ”La me conti”, ho detto. ”Che lei la va in pension, e quando che go savù go dito: povero omo, ’deso chi penserà per lui?” È bello sentire l’affetto della gente attorno a sé.

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