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06 lug – Toth: stroncate dalla storiografia le tesi giustificazioniste

Questo articolo del Presidente nazionale ANVGD Lucio Toth, apparirà sul numero di agosto-settembre di "Difesa Adriatica".

 

Stroncate dalla storiografia le tesi giustificazioniste

Le foibe non furono vendetta, ma un piano preordinato

Una delle cose che più ci rattristano e ci irritano è trovarci di fronte a interlocutori paludati, o più o meno circondati da un’aureola di ufficialità, accademica o salottiera che sia, che credono di avere capito tutto delle nostre vicende, cioè del confine orientale italiano, ed enunciano verdetti del tipo: in fondo le annessioni italiane del 1918 furono guerre di conquista di terre slave e tedesche, dove gli italiani erano quattro gatti arroccati su posizioni di potere economico, che avevano sfruttato per generazioni i contadini sloveni e croati, ridotti alla miseria.

Quando questa supremazia fu messa in pericolo dalla presa di coscienza  delle popolazioni slave del diritto di essere padrone della loro terra, allora noi, perfidi irredentisti, non paghi delle conquiste militari di una guerra vinta per meriti altrui, siamo ricorsi al “fascismo di frontiera” per metter sotto la maggioranza slava con l’uso e l’abuso di manganelli, olio di ricino e, all’occorrenza, gettando gli oppositori nelle foibe.

Per non parlare poi dei crimini di guerra commessi dalle truppe italiane nella Iugoslavia occupata nel 1941-43, delle cui malefatte sono pieni tanti libri di storici italiani di stretta osservanza auto- denigratoria. Crimini di cui la vendetta popolare slava fece pagare il fio con le stragi delle foibe.

Quando sentiamo questa versione delle disgrazie che hanno segnato la vita nostra e delle nostre famiglie sappiamo che è falsa, ma non sempre basta la nostra esperienza diretta e la nostra cultura personale e famigliare per rispondere a tono. E il più delle volte non c’è il tempo sufficiente per farlo. Tanto una riflessione serena richiede un’analisi oggettiva dei fatti, della loro sequenza temporale, delle loro possibili cause. E i primi a non aver tempo da perdere sono i nostri supponenti interlocutori.

E’ per questo che accogliamo con sollievo libri come quello di Marina Cattaruzza ( L’Italia e il confine orientale , Il Mulino – 2007), di Raoul Pupo (Trieste ’45, Laterza, 2009), di Elio Apih (Le foibe giuliane. Note e documenti, Libreria Editrice Goriziana, 2010), pubblicato postumo in questi giorni.

Opere tanto più valide perché provengono da persone non sospette di simpatie di destra, che hanno dedicato la loro vita di studiosi ad indagare su quanto accaduto sulla soglia di casa, che per noi esuli è stata la casa stessa, andata perduta.

Queste ricerche nascono da un sentimento profondo di indignazione di fronte ad una versione propagandistica di sapore nettamente sciovinista. Indignazione che diventa più forte proprio in chi, essendo intimamente democratico, non sopporta che dietro lo schermo dell’antifascismo si vadano a giustificare autentici crimini contro l’umanità, non diversi da quelli che i tribunali internazionali  cercano di giudicare.

Sia Raoul Pupo che Elio Apih hanno fanno parte della commissione mista italo-slovena che è riuscita anche a stendere una relazione rimasta ufficiosa, ma che ormai tutti conoscono. La loro reazione alle tesi giustificazioniste è nata proprio da quella esperienza; dalla durezza dei dibattiti interni dove l’ideologia continuava a prevalere sull’oggettività dei fatti.

Cosicché quell’esperienza è diventata per i partecipanti sprone ad un approfondimento appassionato, per non restare schiavi a loro volta di pregiudizi di segno opposto. E le conclusioni della relazione, spesso conquistate a denti stretti con faticosi compromessi verbali, sono diventate la base di partenza minimale da cui ripartire per fronteggiare l’ondata negazionista di ritorno, che si è prodotta negli ultimi anni come reazione rabbiosa degli ambienti più nostalgici e nazionalisti all’indubitabile conquista conseguita dagli esuli giuliano-dalmati con la legge del Giorno del Ricordo.

Conquista alla quale non è estraneo il diverso clima che proprio quella relazione ha determinato, riconoscendo per la prima volta la reciprocità delle colpe e la complessità delle vicende del confine orientale, dove torti e ragioni non si separano con tagli netti: tutto il bene di qua, tutto il male di là.

Dalle nuove ricerche di Pupo e di Apih trovano conferma documentale alcune acquisizioni per noi essenziali:

1) La presenza da secoli di una popolazione italiana autoctona in Istria, a Fiume e in Dalmazia, in proporzioni diverse, ma comunque prevalente in Istria, a Fiume e a Zara, che dava un volto inconfondibile a un sistema di convivenza tra etnie diverse. Si cancella così la grande menzogna che gli italiani fossero stati importati nelle nostre terre dall’immigrazione forzata mussoliniana.

2) L’insorgere di un conflitto a metà Ottocento tra italiani e slavi (sloveni a nord, croati e serbi a sud) contenuto a fatica dall’amministrazione austro-ungarica ma comunque rimasto, malgrado gli episodi di violenza, nei limiti di un confronto civile tra opposti nazionalismi.

3) L’esplosione di tale conflitto al termine già della prima guerra mondiale negli anni 1919-1921, con sopraffazioni e violenze reciproche che obbligarono sì alcune migliaia di sloveni e croati ad abbandonare il Litorale, ma che costrinsero anche al primo esodo definitivo migliaia di italiani della Dalmazia, riducendo così al lumicino la minoranza dalmato-veneta a Spalato, Traù, Ragusa, Sebenico e negli altri centri dalmati.

4) L’inserimento su tale situazione conflittuale del c.d. “fascismo di frontiera”, in gran parte guidato da elementi estranei alla regione e che si scontrava con la formazione liberale e democratica del personale politico irredentista che aveva retto le comunità locali sotto l’Austria, difendendone il carattere italiano. Se ne deduce che non fu il “fascismo di frontiera” a generare il conflitto, ma caso mai a strumentalizzarlo esacerbando i contrasti e soprattutto finendo per dividere gli stessi italiani, tra fascisti e antifascisti. Cade così l’altra menzogna: che gli italiani del confine giuliano fossero tutti fascisti.

5) L’ambiguità del tentativo di snazionalizzazione delle aree slovene e croate messo in atto dallo stato italiano tra il Venti e il Quaranta, con contraddizioni tra un periodo e l’altro, tentativi di assimilazione e parziali e temporanee acquisizioni di consenso allo stesso regime fascista, come avveniva nel resto d’Italia.

6) La violenza dell’occupazione/”liberazione” iugoslava nel 1944 in Dalmazia e nella primavera del 1945 nella Venezia Giulia, che aveva come scopo preordinato una strategia di eliminazione fisica preventiva di chiunque, per le sue convinzioni o il suo passato, potesse opporsi non solo all’instaurazione di un regime comunista ma all’immediata annessione di tutta la regione, fino al Friuli, alla Iugoslavia di Tito.

Questo è il dato di fatto che taglia la testa al toro alle tesi giustificazioniste. Non fu la rabbia della popolazione slovena e croata, altamente minoritaria nelle città e nell’Istria costiera, a causare i massacri degli italiani nelle foibe e nel gulag iugoslavo, ma un disegno programmato dall’alto per cancellare o sottomettere quanto di italiano vi era nella regione. E all’epoca era ancora tanto!

Scrive Apih che nell’eliminazione massiva degli italiani modalità e pratiche erano “tipiche dei rivoluzionari organizzati”, molto lontane da quelle delle insurrezioni popolari contro i “padroni” o gli “occupanti”. Non furono i contadini sloveni e croati ad approfittare dei loro conterranei italiani rimasti senza difesa. Non ci furono linciaggi né di civili né di militari, né in Venezia Giulia né altrove, sottolinea l’autore. Si trattò invece di un’azione politica coordinata, frutto di esperti del terrore appositamente addestrati.

L’uso delle “corriere della morte”, che percorrevano di notte le strade dell’Istria interna con i vetri imbiancati a calce per portare i prigionieri nei luoghi di esecuzione, dove li attendevano le mitragliere puntate tra i tronchi degli alberi, era lo stesso già sperimentato sei anni prima dai servizi sovietici a Katin – osserva Elio Apih – quando vollero sterminare la classe dirigente militare polacca, che era prevalentemente di sentimenti liberali o conservatori. Un’azione di prevenzione quando ancora nessun soldato della Germania nazista aveva varcato il confine dell’URSS. Che anzi Stalin e Hitler in quel momento erano buoni alleati.

La stessa pratica dei polsi legati con il filo spinato era comune – prosegue lo storico triestino – alle esecuzioni di massa tanto naziste che sovietiche. La scuola dei massacratori di Tito era dunque la stessa.

Un disegno lucido e spietato, che partiva dalla subordinazione delle formazioni partigiane italiane ai comandi iugoslavi (incoraggiato da Togliatti), alla loro dispersione in regioni della Iugoslavia lontane ed estranee (dove i nostri partigiani giuliani, insieme con i militari italiani passati con la resistenza iugoslava, non sapevano come muoversi ed erano visti con sospetto e ostilità dai “compagni” slavi).

Una tragedia nella tragedia quella dei soldati italiani finiti nel gulag iugoslavo dopo aver combattuto al fianco di Tito, che si unisce al calvario dei militari della RSI giustiziati sul posto e dei civili giuliani, deportati a migliaia a piedi per centinaia di chilometri dalle coste adriatiche verso la Lika e le pianure pannoniche. Era l’italiano che si doveva eliminare, in quanto italiano.

Borovnica, Stara Gradidka: nomi rimasti nella memoria delle nostre famiglie come Dakau e Bukenwald. Tanto più che molti dei prigionieri italiani in Iugoslavia venivano addirittura dai lager tedeschi dell’Europa orientale.

Anche se le truppe italiane, quindi, non avessero compiuto sanguinose rappresaglie in Croazia o in Montenegro, la sorte dei civili italiani della Dalmazia e della Venezia Giulia era già segnata: dovevano andarsene. In un modo o nell’altro, come confessò Milovan Gilas.

Questa è la tragica verità che emerge dall’analisi dei documenti.

Aveva visto bene Antonio Baiamonti fin dal 1887. Nel suo ultimo discorso alla Dieta Dalmata “austriaca”, da ultimo podestà italiano di Spalato, quando ancora non era apparso il “fascismo di froniera”, così si era pronunciato: “ Gli italiani, anziché combattere le vostre aspirazioni, anziché calpestare i vostri diritti e schiacciare il vostro avvenire, si sono prestati, con interesse leale e vero, perché la lingua slava fosse modestamente introdotta nelle scuole e negli uffici ”… “ Noi fin dai primi tempi vi abbiamo accolto sui nostri lidi con affetto e sincerità e voi ce ne discacciate, con poco patriottismo e ci assegnate come unica dimora il mare : “u more ” – che è il vostro programma. ” … “ Noi vi abbiamo dato istruzione e voi ci volete condannare all’ignoranza; noi non abbiamo mai pensato di sopprimere in voi il sentimento di nazionalità, né la lingua, ed alcuni di voi raccoglierebbero tutti noi in un cumulo per farci saltare in aria con un paio di chilogrammi di dinamite. ” 

Fu necessario qualche chilogrammo in più. Ma il risultato finale fu raggiunto, da Cattaro a Capodistria.

Lucio Toth

 

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