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05 ott – Toth a Pahor: gli oppressi sono tutti uguali

L’intervista di Boris Pahor sul “Corriere della Sera” del 30 settembre non si può leggere che con grande rispetto: per l’uomo in sé, per l’età e le esperienze storiche e personali che ha vissuto, per la sua sensibilità e la sua discrezione di narratore. Lo capisce bene uno come me, con vent’anni di meno ed esperienze personali meno drammatiche, proprio grazie a quella differenza di venti anni. Perché gli italiani dell’Istria e della Dalmazia che sono arrivati a novant’anni hanno vissuto esperienze analoghe, ma con esiti finali ancora più tragici.

È vero che lo Stato italiano ha tentato di snazionalizzare tra il Venti e il Quaranta del secolo scorso le popolazioni slovene e croate della Venezia Giulia, oltre un terzo della popolazione di allora, cancellando le loro lingue come lingue ufficiali dell’amministrazione e della scuola pubblica.

A differenza di quanto aveva fatto l’“oppressore” impero austriaco che nel Litorale, a Fiume e in Dalmazia aveva rispettato il plurilinguismo delle popolazioni: italiane, slovene, croate e serbe. Ma, a parte i metodi violenti del fascismo, quell’atteggiamento era comune a tutti gli Stati nazionali dell’epoca, dalla Francia che impose il francese a catalani e corsi, nizzardi a alsaziani alla Iugoslavia dei Karageorgević che chiuse tutte le scuole italiane della Dalmazia, spingendo all’esodo quasi ventimila dalmati, ad eccezione della mia Zara, che lo stesso Wilson aveva lasciato all’Italia per il suo carattere italiano. 

Ma l’ondata di violenza rivoluzionaria di Stato che investì le nostre regioni tra il 1943 e il 1954 ci è costata migliaia di morti nelle foibe e nel gulag iugoslavo: padri, sorelle, parenti stretti; molti passati dal lager nazista alla foiba iugoslava.

Se c’è una coscienza scomoda per l’Italia degli ultimi cinquanta anni siamo proprio noi, italiani dell’Istria, di Fiume, della Dalmazia, cui per convenienze politiche e ideologiche è stata chiusa la bocca per “non disturbare” i rapporti internazionali con l’URSS, con Tito, con gli alleati occidentali. Costretti a un esodo di massa che ha privato quelle province di metà della loro popolazione autoctona. Cosa che agli sloveni della Venezia Giulia non è successo.

Conosco bene le sofferenze descritte da Pahor nei suoi romanzi, così simili a quelle degli italiani narrate da Fulvio Tomizza, da Nelida Milani e Anna Maria Mori, da Marisa Madieri, da Claudio Magris, da Leo Valiani. Le conosco perché ho vissuto nell’infanzia tra Aidussina, Trieste e Zara e ricordo mio padre, ufficiale di carriera dell’esercito italiano, che difendeva contro l’ottusità delle nostre amministrazioni il diritto degli sloveni e dei croati delle province italiane a parlare nella loro lingua, come a noi italiani della Dalmazia era stato consentito dal governo austriaco, sia pure a costo di persecuzioni poliziesche e perdite di impieghi statali. Quanti impiegati, magistrati, insegnanti italiani delle nostre regioni abbandonarono le loro occupazioni e le loro città prima del 1915 perché la tollerante Austria non li sopportava più per la loro propaganda filoitaliana!

E dopo il 1943 altro che trasferimenti e confino politico! Chi si opponeva alla Iugoslavia comunista ha avuto una sorte assai peggiore.

Gli oppressi sono tutti uguali e penso che meritino la stessa comprensione. Essere privati del proprio luogo natale non è cosa da poco. E noi siamo tra quei milioni di europei, da Smirne a Könisberg, cui questo è successo.

Roma, 5 ottobre 2009
                                                                                                 
On. Lucio Toth
Presidente Nazionale ANVGD

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