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05 nov – Quei due Senatori italiani fini nelle Foibe

E’ vero che due Senatori italiani finirono nelle foibe, così come è vero che, nel Giorno del Ri­cordo, almeno il Senato avrebbe potuto pren­dere qualche iniziativa in memoria di questi due eroici martiri italiani. I loro nomi: Riccar­do Gigante e Icilio Bacci, entrambi fiumani.

Riccardo Gigante era nato a Fiume il 29 gen­naio 1881. Fondatore dell'associazione e del giornale «Giovine Fiume», era stato arrestato e processato per i duri attacchi rivolti al go­verno di Vienna e per l'azione a favore dell'ir­redentismo di Fiume. Nel 1912, «Giovine Fiu­me» era stata sciolta d'autorità. Il 5 maggio 1915, in occasione dell'inaugurazione del mo­numento ai Mille con il celebre discorso di Ga­briele D'Annunzio a Quarto, Gigante era riu­scito a raggiungere Genova e qui aveva rap­presentato Fiume con un gonfalone confezio­nato sul posto da fiumani emigrati in Liguria. Allo scoppio della Grande Guerra si era ar­ruolato volontario ed aveva combattuto con gli inglesi guadagnandosi la «Military Cross».

Rientrato a Fiume, l’11 novembre 1919 era stato eletto sindaco all'unanimità e in tale ve­ste aveva strettamente collaborato con D'An­nunzio e i suoi volontari fino al Natale di San­gue del 1920. Giornalista de La Vedetta d'Ita­lia, primo Podestà di Fiume italiana nel 1930, Senatore del Regno dal 24 febbraio 1934. Dopo l'8 settembre 1943, pur avendo aderito alla Re­pubblica Sociale italiana, ricevendone la no­mina a Capo Provincia (Prefetto), si era più volte scontrato con i tedeschi, che, nelle terre italiane sull'Adriatico, la facevano da padro­ni. Ciò non lo salverà dall'odio titino. Molti, in città, lo videro, seminudo, sanguinante, tra­scinato per le vie di Fiume dagli slavi del IX Corpus. Di lui non si saprà più nulla fino al 1960, allorché Vita Ivancich Butti, vedova del maresciallo della Guardia di Finanza Vito Butti, riferirà all'Angvd (Associazione Nazio­nale Venezia Giulia Dalmazia) che il senatore Gigante era stato ucciso e quindi gettato nella foiba di Castua assieme a suo marito e ad al­tre sette persone. Ma al senatore era stato ri­servato un trattamento davvero «speciale»: le­gato con filo spinato agli altri prigionieri, era stato colpito al volto con coltellate e gli era sta­to squarciato il ventre mentre era ancora vi­vo. Prima di morire, aveva gridato per due volte: «Viva l'Italia!». I suoi resti furono ritro­vati e recuperati 37 anni dopo, grazie all'opera di Amleto Ballarini e Marino Micich, della So­cietà di Studi Fiumani.

Nulla invece si sa di dove sia stato infoibato il senatore Icilio Bacci, talmente fedele al Re d'Italia da essersi persino rifiutato di aderire alla Rsi. Bacci, nato a Fiume nel 1879 da padre dalmata e madre milanese, era stato eletto consigliere comunale nel 1907 quale dirigente del movimento irredentista. Quello stesso an­no aveva conosciuto D'Annunzio in occasione della prima visita del poeta a Fiume e tra essi era sorto uno stretto legame. Aveva poi spo­sato una ragazza di Ancona e si era trasferito nelle Marche da dove, allo scoppio della Pri­ma Guerra Mondiale, aveva raggiunto il fron­te, volontario in Cavalleria. Aveva combattu­to durante tutto il conflitto e suo fratello era morto sul campo. Aveva poi partecipato al­l'impresa di Fiume, divenendo delegato alla Giustizia nella Reggenza del Carnaro. Presi­dente della Provincia del Carnaro nel 1929, Se­natore del Regno nel 1934. Dopo l'8 settembre '43 aveva contestato duramente gli occupanti tedeschi, il che non valse a sottrarlo all'odio razziale anti-italiano dei partigiani di Tito.

Il 4 maggio 1945 chiese alle «autorità» titine un lasciapassare per potersi recare a Verona onde sottoporsi alle cure ospedaliere richieste dal suo malfermo stato di salute. Gli fu detto di presentarsi, il 21 maggio, negli uffici dell'Ozna, la polizia politica di Tito, il cui capo era Oskar Piskulic, un famigerato boia responsa­bile della morte di decine di italiani, che inu­tilmente la magistratura italiana cercherà di perseguire molti anni dopo. Piskulic lo fece rinchiudere in carcere, dove le sue condizioni si aggravarono. Invano la moglie, Lidia Bacci, presentò un appello al generale Dapcevic, co­mandante delle truppe di occupazione di Fiu­me, che aveva i suoi uffici ad Abbazia. Non ot­tenne alcuna risposta. Pochi mesi dopo, lo stu­dio e l'abitazione del senatore Bacci venivano depredati di ogni loro bene dalla polizia di Ti­to. Bacci era scomparso per sempre. Il 3 mar­zo 1949, la Legazione d'Italia a Belgrado rice­vette dal governo di Tito, in risposta ad una ri­chiesta di notizie sul senatore Bacci, una fred­da lettera nella quale si poteva leggere: «Il Mi­nistero degli Affari Esteri porta a conoscenza di codesta Legazione che il cittadino italiano Icilio Bacci è stato condannato, quale crimi­nale di guerra, per decisione del tribunale mi­litare di Fiume del 28 agosto 1945, alla pena di morte. La sentenza è stata immediatamente eseguita». Non una riga in più. Non dove ven­ne ucciso, non dove fu sepolto, non la motiva­zione delle sentenza. Ragioni più che valide perché le autorità italiane tornino e rivolgere una adeguata richiesta di informazioni al nuo­vo governo croato (che -almeno così sembra- non dovrebbe avere più nulla da spartire con la Jugoslavia di Tito), per giungere almeno al recupero dei resti del senatore Bacci e di colo­ro che furono assassinati con lui, onde dare ad essi onorata sepoltura e un degno ricordo.

Luciano Garibaldi su Il Secolo d'Italia del 3 novembre 2009

 

 

 

(il Sen. Riccardo Gigante)

 

 

 

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(il Sen. Icilio Bacci)

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