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Trieste: Pahor in lite con il Sindaco (CorSera 27 dic)

di Marisa Fumagalli

Il sindaco di Trieste parla di lui con ammirazione: «Uno scrittore importante, un uomo simpatico. Ma…». Ma? «Boris Pahor non può pretendere di chiosare anche la motivazione di una Benemerenza civica che gli si voleva attribuire», risponde Roberto Di Piazza, primo cittadino del capoluogo giuliano. Che, per inciso, è un politico in quota Pdl. Ma qui le sigle non c’entrano. C’entra piuttosto la volontà di smussare gli spigoli, di non spargere benzina in una città di confine dove gli animi si accendono in fretta e i fantasmi del passato potrebbero riapparire. Proprio adesso che il processo di riappacificazione tra sloveni e italiani è a buon punto. La vicenda della Benemerenza a Pahor, mancata, non è nuova, ma a rinverdirla ci ha pensato in questi giorni il Primorski Dnevik, giornale in lingua slovena che si pubblica a Trieste, con un’intervista a Di Piazza. Il sindaco, in sostanza, dice: «A caval donato non si guarda in bocca… Ci mancherebbe che i premiati decidessero le motivazioni del premio»

Già. Ma il «grande vecchio» se ne infischia delle medagliette se il contenuto del simbolo non rappresenta ciò che per lui è l’essenza. Boris Pahor, classe 1913, nato sloveno e diventato italiano «per imposizione», intellettuale onesto, ha passato la vita a combattere (dopo averli subiti) tutti gli «ismi» della Storia: fascismo, nazismo, comunismo. Dunque, al telefono, dalla sua casa di Trieste («ora mi faccio un semolino, poi una camminata e quindi passo alla macchina per scrivere e riprendo la stesura dei miei diari dove un capitolo è dedicato alla disputa con il sindaco»), ribadisce il perché delle sue «condizioni irrinunciabili» a proposito delle parole che avrebbero accompagnato la Benemerenza «congelata» dal sindaco. «Per le sofferenze subite durante il nazismo», argomentava, infatti, la motivazione, alludendo alla drammatica esperienza dello scrittore, catturato dai nazisti e internato (1944) nei campi di concentramento di Francia e Germania. Da qui, il suo libro più conosciuto, Necropoli. «Il nazismo, certo, mi perseguitò duramente; tuttavia, le prime sofferenze mi furono inflitte dal fascismo, che mi rubò l’adolescenza e l’identità», protesta Pahor che nel 1920 vide bruciare la Casa della Cultura slovena, ad opera dei fascisti, prima ancora che Mussolini marciasse su Roma. «Ecco — spiega — avrei voluto che si aggiungesse una parola in più. Quella parola». Il primo cittadino di Trieste replica: «Dobbiamo guardare avanti, lasciamo la storia agli storici». Dice al Corriere: «Sono pronto a ritornare sui miei passi, cioè a conferirgli la Benemerenza civica, se Pahor, uomo di grande valore, abbassasse i toni». E ricorda che, nel 2005, Trieste consegnò allo scrittore («per mano del vicesindaco di An») il Sigillo trecentesco.

Ma la querelle è difficilmente componibile. Pahor non intende cancellare un pezzo di vita. «Erano gli anni della mia formazione— racconta —, mi costrinsero a diventare un’altra persona. La mia lingua non valeva più nulla: mio padre pagava un maestro per insegnarmi l’italiano, ma io ero psicologicamente un disadattato. Soffrivo nel rinnegare me stesso. Di nascosto, continuavo a leggere i libri sloveni, quelli che non furono bruciati dai fascisti… Mi mandarono a studiare in seminario, dove alcuni ragazzi più svegli mi spiegarono la volontà di conquista degli italiani. Capii molte cose, le ho scritte nel mio libro Tre volte no ».

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