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Torna Primadonna, il romanzo postumo di Arturo Colautti – 10dic14

 

Arturo Colautti, nato a Zara il 9 ottobre 1851 da padre friulano e madre francese e spentosi a Roma il 9 novembre 1914, personalità significativa della politica e della cultura dalmata tra Otto e Novecento, fu romanziere e fecondo pubblicista, direttore di svariate testate giornalistiche e politico militante, autore di alcuni dei più noti libretti dell’opera italiana, dall’Adriana Lecouvreur per Francesco Cilea a Fedora per Umberto Giordano a Camicia rossa per la musica di Ruggero Leoncavallo ed altre ancora. Ma vale la pena rinviare, per meglio comprendere quanto versatile ed anche inquieto fu Colautti, alla relativa scheda che Sergio Cella stilò per l’Enciclopedia Treccani, nella quale si legge – fra molto altro – della sua vivace attività giornalistica, della partecipazione alla campagna per l’occupazione austriaca della Bosnia-Erzegovina, di un primo processo per reato di stampa, degli studi militari e della stesura di opere sulla Bosnia-Erzegovina (edita a Spalato nel 1878) e su Dalmazia, Croazia e paesi balcanici (Milano 1881); ed ancora, della direzione del settimanale spalatino “l’Avvenire”, fucina di irredentismo italiano, dell’aggressione subita nottetempo da una decina di soldati austriaci, di sette processi pendenti, di polemiche a non finire e duelli, e infine dell’imbarco, nel 1881, per Ancona, espulso dal governo austriaco.

 

Ma la riedizione, in bella veste editoriale per i tipi di Elliot (Roma), del suo romanzo Primadonna, pubblicato postumo nel 1921 per Bemporad, riconduce la figura di Colautti alla sua dimensione letteraria e teatrale, forse quella a lui più congeniale, nella quale egli trovò fortuna e prestigio in quel clima di fine Ottocento e primo Novecento attraversato da accese passioni e correnti musicali (lui filo-wagneriano) e politiche. Frutto «dei tanti dimenticati – scrive nella prefazione Paolo Patrizi – del talento eclettico e dispersivo di Colautti», Primadonna mette in scena quel che oggi si definirebbe il backstage dell’opera, animato dalle figure topiche di quel mondo sempre in bilico tra sfarzi transitori e cadute irreversibili, successi clamorosi e oblii miserevoli.

 

«Tutto il sottobosco di soprani senza talento […], di pennaioli venduti e pasciuti […], di agenti senza scrupoli e intermediari senza competenze viene pennellato con grande icasticità», scrive Patrizi cogliendo la particolarità dello stile e del registro di Colautti, per diversi aspetti ancora molto accattivante ed anche cinico e perciò molto meno datato di quanto si possa pensare. Se le tinte della varia umanità qui ritratta possono riecheggiare la maniera verista, pur non estranea all’autore, la sua scrittura risulta nettamente peculiare, non di rado beffarda e disinvolta, come nelle pagine (ma è un esempio fra i tanti) nelle quali il protagonista, Carlo Coletti, riflette sull’incongruità della presunta onestà dell’aspirante cantante con il disinvolto costume morale del teatro: «non vedeva, non indovinava dunque la bellissima stolta che l’onestà e l’arte sua erano due termini socialmente incompatibili […]. In fondo, egli non credeva troppo a quella incorruttibilità. Anzi tutto, mancavano i documenti che attestassero irrefragabilmente il suo stato fisiologico. […] La verecondia non è mai una prova, quando non vi sia prova in contrario». Di «virtuosismi stilistici» parla il prefatore, ma non di meno dovremmo rilevare la “modernità” della disinibita scrittura e dello sguardo di Colautti sugli ambienti e le marionette del suo mondo, sé compreso.

 

Essendo dalmato, e fittamente impegnato su vari giornali e non senza innumerevoli traversie a divulgare il problema degli italiani di Dalmazia soggetti all’Austria-Ungheria, non poteva mancare nell’epilogo del romanzo il richiamo alle aspirazioni nazionali italiane e alla loro diffusione mediante nuovi, ardimentosi fogli. Coerentemente con l’assunto, alla fondazione del Partito nazionalista Colautti volle farne parte e fu tra i protagonisti del primo congresso, convocato a Firenze nel 1910, insieme con Ernesto Corradini e Luigi Federzoni. Trasferitosi infine nella Capitale, già malato ricevette qui le visite di Cesare Battisti e di Giovanni Giuriati, due futuri protagonisti della Grande Guerra e delle sue conseguenze. «Le cure dei medici poco gli giovarono e nelle prime ore del 9 novembre 1914 – scriveva Cella nel suo profilo per l’Enciclopedia Italiana –, invocando la sua Zara e l’intervento italiano in guerra, spirò. I suoi funerali riuscirono un’imponente manifestazione interventistica». Ma, ci aggiorna il curatore di questa edizione, Paolo Patrizi, «volendo evitare una manifestazione irredentista di massa, questioni di ordine pubblico imposero una cerimonia privata. Dava fastidio anche da morto».

 

Patrizia C. Hansen

 

Arturo Colautti, Primadonna, Elliot, Roma 2014

pp. 277, € 19,70

 

 

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