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Torino e gli esuli delle ”Casermette” (La Stampa 11 feb)

Santa Caterina, quartiere Lucento, periferia Nord di Torino. È il rione delle «Case rosse», palazzine basse di mattoni e cemento che da oltre cinquant’anni ospitano i profughi di Istria, Fiume e Dalmazia. Sulle buche delle lettere cognomi che portano lontano, verso i confini orientali: Gerbaz, Mitton, Vlacancich. Sono quelli di alcune famiglie italiane scampate nel secondo dopoguerra alla pulizia etnica della Jugoslavia di Tito: ventimila vennero trucidati, seimila gettati nelle foibe. Altri 350 mila (l’80 per cento della popolazione) furono costretti ad abbandonare terre abitate pacificamente da generazioni: un autentico esodo.

Le «case minime»

 

In Italia vennero allestiti 109 campi profughi ricavati in vecchie caserme, magazzini, baracche. Quelli piemontesi raccolsero oltre trentamila persone. A Torino il «campo di transito» era alle Casermette di via Veglia, in borgo San Paolo: aperto nel ‘45, in tredici anni vi passarono (e vissero) oltre diecimila persone. Nel 1955 venne inaugurato il villaggio Santa Caterina e oltre cinquecento famiglie di esuli trovarono finalmente una sistemazione decorosa. «Erano le “case minime” – ricorda Antonio Vatta, nato in Dalmazia nel 1935 -, alloggi di quaranta metri quadri». Vennero ampliati per ospitare le famiglie più numerose, i tramezzi abbattuti: «Alcuni si ritrovarono due cucine, altri nessuna». Mancavano i termosifoni, «ma era pur sempre meglio delle baracche dove le pareti erano semplici coperte tese su fili e i bagni erano in comune».

Il pallone

 

Vatta a Torino arrivò nel ‘51: «Eravamo cinque fratelli, scappammo con la mamma a bordo dell’ultima nave da guerra tedesca salpata da Zara. La città l’indomani venne occupata dai partigiani titini che trucidarono i militari italiani rimasti gettandoli in mare». Poi Fiume, Trieste, Udine, Padova, Mantova. Infine Torino, alle Casermette: «C’erano anche tre squadre di calcio: con mio fratello Piero eravamo il centrocampo della Fiumana, quella più amata». Piero diventerà calciatore professionista, poi allenatore della Primavera del Toro. Nel ’56 si trasferirono alle «Case rosse».

Il sentiero per la città

Fulvio Aquilante, classe 1943, lasciò Orsera che aveva cinque anni: «Ne trascorsi altrettanti al campo di Massa, un’ex colonia marina circondata dal filo spinato». Nel ’53 raggiunse il padre che a Torino aveva trovato un lavoro: altri tre anni alle Casermette, poi finalmente l’appartamento a Santa Caterina. «Allora qui non c’era nulla e per raggiungere il capolinea del 13 – che ci portava in città a ballare o mangiare un piatto di “pasta e fasoj” alla Mazzini – solo un lungo sentiero in mezzo ai campi: l’inverno diventava un pantano». La città è cambiata da tempo: al posto dei prati strade, case, negozi, scuole. Ma Aquilante abita sempre lì, in quell’appartamento all’incrocio tra via Parenzo e via Pirano. A poca distanza, dov’era la centrale che scaldava il villaggio, c’è l’Unione regionale profughi e rimpatriati. «È il centro che da vent’anni aggrega la nostra gente, la nostra memoria», afferma Eugenio Maisani, nato a Montona nel ’29. Mostra con orgoglio gli stemmi colorati delle città istriane, la cartina del Touring con l’Istria, Fiume e le isole del Quarnaro ancora italiane, i libri diligentemente allineati sugli scaffali della biblioteca.

Le tradizioni

 

Al circolo, gli anziani giocano alle carte, sorseggiano caffè, parlano il dialetto, leggono i bollettini appena giunti dalle altre comunità sparse nel mondo: Australia, Canada, America, Sud Africa. «Organizziamo convegni, presentiamo libri, ospitiamo concerti: tramandiamo la nostra storia, la nostra cultura secolare, quelle che ci hanno permesso di restare uniti», sottolinea Aquilante.

 

Oggi a Santa Caterina restano 300 famiglie di esuli, ma sono trentamila i profughi in Piemonte, il doppio se si contano anche i discendenti. Ieri hanno celebrato la Giornata dedicata al ricordo dell’esodo e alle vittime delle foibe. Lo hanno fatto con grande compostezza, senza rancori, i padri vicini ai figli, i nonni ai nipoti: «I nostri giovani cominciano a sentire il richiamo delle radici», sussurra Vatta. Radici che affondano in una pagina di storia che, ha detto il sindaco Fassino, «per troppo tempo l’Italia non ha avuto il coraggio di riconoscere».

 

Roberto Travan

“La Stampa” 11 febbraio 2012

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