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Stefano Zecchi sulla rotta degli esuli dall’Istria (Il Piccolo 14 set)

di ALESSANDRO MEZZENA LONA

Di saggi sull’esodo ne ha letti a pacchi. Ma Stefano Zecchi ha sempre pensato che nessuno degli storici, neanche il più bravo, sia riuscito a dare conto per davvero di quella tragedia che è stato l’esodo degli italiani dall’Istria, da Fiume, dalla Dalmazia. Convinto che questa storia sia «l’espressione simbolica del Male nel Novecento», ha voluto inventare una trama. Un romanzo che non tradisse la verità dei fatti, ma che contenesse in sé una dirompente forza narrativa.

È nato così ”Quando ci batteva forte il cuore” (pagg. 215, euro 18,50), il romanzo che Mondadori distribuisce oggi nelle librerie. E che Stefano Zecchi presenterà domenica 19, alle 16 nel Palazzo della Provincia in largo San Giorgio, nell’ambito di Pordenonelegge.it.

È il 1945 a Pola. L’Italia si è imbarcata in una guerra sbagliata e ha perso. In Istria, in Dalmazia i partigiani di Tito, che hanno respinto le truppe fasciste e quelle naziste, pretendono di sedersi al tavolo dei vincitori reclamando un bel po’ di terre. L’Istria, Fiume, la Dalmazia. Ma anche Trieste, un lembo di Friuli e d’Austria. Gli Alleati provano a tenere a freno i comunisti jugoslavi, ma non fermano gli infoibamenti, le esecuzioni sommarie. Le violenze che colpiscono chiunque proclami con orgoglio la propria italianità.

In quella Pola, la mamma di Sergio, un ragazzino cresciuto lontano dal padre, rinchiuso a lungo in campo di prigionia, non vuole arrendersi all’evidenza. Continua a sognare la sua terra libera, italiana. Nives non capisce che per lei, e per gli altri attivisti anti-jugoslavi, si avvicina una tragica fine. Solo Flavio, il papà dimenticato che è riuscito a tornare a casa, intuisce il pericolo. E con l’appoggio dei nonni decide di scappare verso l’Italia, verso Venezia, per salvare almeno la vita del figlio. Per regalargli un futuro lontano da quella terra, che si sta trasformando in una trappola insanguinata.

«Non c’è niente di autobiografico nel libro – spiega Stefano Zecchi, che insegna Estetica all’Università di Milano ed è autore di numerosi saggi, ma anche di opere narrative -. Certo, mia nonna era triestina, io sono veneziano. E quindi le vicende dell’esodo le conosco bene. Da ragazzino vedevo arrivare in laguna la gente scappata dall’Istria. Ed è vera la storia che racconto nel libro del cartello che mettevano al collo dei bambini con la scritta ”profugo”».

L’idea di questo romanzo è nata già un paio d’anni fa. «Il ”Corriere della Sera” ha pubblicato una serie di libretti: i ”Corti di carta” – dice Zecchi -. A me chiesero di scriverne uno dedicato al caso di Maria Pasquinelli, la maestra di Pola che uccise a colpi di pistola il generale inglese Roberrt W. De Winton. Una storia che conoscevo e mi aveva sempre affascinato. ”Maria” è andato esaurito in due ore».

Eppure, ”Quando ci batteva forte il cuore” non è solo un libro sull’esodo. È anche un romanzo che tiene il lettore sul filo della suspense. E che vuole mettere in primo piano l’importanza e la fragilità del rapporto tra padre e figlio. A lungo oscurato dalla presenza di una madre combattiva, accecata dal proprio credo. Che alla fine rischierà di mettere in pericolo la famiglia.

«Per troppo tempo, e anche oggi, i padri sono stati emarginati – spiega Zecchi -. Io qui ho creato una mamma un po’ estrema, che non a caso è amica di Maria Pasquinelli. Una donna che sacrifica la famiglia al proprio credo politico, all’affermazione dell’italianità dell’Istria. Nives, se vogliamo, è un po’ una metafora della donna in carriera del mondo d’oggi».

In questo romanzo, dove «la storia dell’esodo mette in luce una crudele verità: l’Italia democratica non ha saputo dare una risposta limpida e dignitosa alla gente che ha sofferto così tanto», Zecchi sa accompagnare una narrazione forte, serrata, per lunghi tratti angosciosa, con una scrittura pulita, priva di fronzoli, efficace.

«La mia idea estetica della scrittura – spiega il professore e scrittore – prevede che ogni narrazione sia fortemente coinvolgente. Però, allo stesso tempo, non dev’essere sciatta. Deve costruire simbolicità, emotività, quindi coinvolgimento. Io di solito scrivo a mano, poi riscrivo più che correggere. E solo quando sono soddisfatto ricopio al computer. È un lento lavoro di affinamento, anche per eliminare le ridondanze. Contro ogni sperimentalismo linguistico, di cui siamo stati a lungo vittime, e che ha allontanato i lettori dai libri, credo ci sia necessità di una scrittura che abbia la forza di coinvolgere».

 

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