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S. Romano: il nazionalcomunismo di Tito (CorSera 28 lug)

LETTERE A SERGIO ROMANO

Nella risposta a una lettera sul dissenso tra Tito e Stalin (forse è il caso di parlare di «scomunica», dal momento che la chiesa rossa guidata dall’Urss generava vere e proprie eresie, scomuniche e versioni aggiornate dei roghi) lei afferma che la mossa di Stalin di spaccare il partito jugoslavo non funzionò ed «ebbe l’effetto di suscitare il patriottismo jugoslavo e di consolidare il regime». Forse per ragioni di spazio lei ha evitato di dire che nel Pc jugoslavo in realtà ci furono dissidenti pro Urss, quelli che non avrebbero mai concepito di tradire le direttive di Mosca, ma che Tito seppe reprimere senza pietà. Con vere e proprie purghe, in scala inferiore per numero ma non per spietatezza rispetto a quelle staliniste. Molti di questi jugoslavi fedeli a Mosca finirono a Goli Otok, la famigerata Isola Calva. In definitiva, quello che andò in scena con la scomunica del Pc jugoslavo dal Comintern il 28 giugno 1948 fu lo scontro tra due Stalin, uno di nome Stalin, l’altro di nome Tito. Un perfetto discepolo, quest’ultimo, dell’arte comunista della repressione.

Ferruccio Gattuso

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Caro Gattuso,

Sulla prontezza e la durezza con cui Tito stroncò l’opposizione interna lei ha certamente ragione. Sapeva che il partito comunista dell’Unione Sovietica poteva esercitare una influenza determinante su un gruppo consistente del partito jugoslavo e non esitò ad agire con rapidità e brutalità. Colpì anche persone che meritavano di essere trattate diversamente, ma nella logica dell’universo comunista nessun altro metodo, probabilmente, gli avrebbe permesso di conservare il potere.

L’equazione Tito-Stalin invece ha l’effetto di rendere meno visibili i tratti specifici dei due personaggi. Nella crudeltà del leader sovietico vi erano al tempo stesso compiacimento e ossessione morbosa: due caratteristiche che non appartenevano al maresciallo jugoslavo. Tito, inoltre, ebbe alcuni meriti che non sarebbe giusto dimenticare. In primo luogo conquistò la sua autorità sul campo combattendo per la liberazione del suo Paese contro le forze armate congiunte della Germania e dell’Italia. In secondo luogo fu un comunista nazionale, il primo che all’interno del blocco sovietico abbia avuto il coraggio di opporsi alla strategia imperiale di Mosca. Se la Jugoslavia non fu ridotta allo stato di Paese satellite, il merito fu certamente suo. In terzo luogo creò con il presidente egiziano Nasser e il premier indiano Nehru il movimento dei non allineati. So che i «terzisti» non piacquero allora né all’Occidente democratico né all’Oriente comunista. Ma il movimento infranse la logica manichea della guerra fredda e impedì che il mondo diventasse teatro di uno scontro globale. In terzo luogo, infine, Tito tentò la strada dell’autogestione e dei consigli di fabbrica. La riforma non funzionò e dimostrò che qualsiasi metodo fondato sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione avrebbe impedito a un Paese di sviluppare le proprie risorse. Ma Tito aveva capito prima di altri comunisti che la ricetta sovietica era destinata a fallire.

Qualcuno potrebbe ricordare che lo Stato di Tito fu una creazione effimera, destinata a scomparire. È vero. Ma si potrebbe rovesciare l’argomento e constatare che la Jugoslavia sopravvisse finché Tito fu al potere e si ruppe soltanto dopo la sua morte.

Sergio Romano

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