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Ritorno alla Jugoslavia? (Avvenire 18 set)

INTERVISTA. Il futuro dei Balcani tra pulsioni nazionaliste, crisi economica e ritrosie europee; parla il romanziere macedone-albanese Luan Starova

DI VITTORIO FILIPPI

Luan Starova è decisa­mente un uomo dei Balcani. Non solo nel senso ovvio che nei Balca­ni i è nato e ci vive, ma so­prattutto perché ben rias­sume in sé, nella biografia e nel suo lavoro intellet­tuale, i movimenti, le me­scolanze, le contaminazio­ni, le contraddizioni che segnano in profondità quest’area del mondo. Sta­rova è nato nel 1941 a Po­gradec, sulla sponda alba­nese del lago di Ohrid, e vi­ve a Skopje, dove è emigra­to. È francesista, diploma­tico – è stato il primo am­basciatore macedone a Pa­rigi – e soprattutto scritto­re. In Saga balcanica, ope­ra in dieci volumi scritta in albanese e macedone, trat­ta il destino complesso della sua famiglia di mi­granti e lo fa con raffinata ricchezza di riflessioni sul­la storia balcanica del No­vecento. Racconta di confi­ni, di esilii e di traslochi, in cui l’unica cosa che so­pravviveva era l’enorme biblioteca del padre, che definisce «balcano-babeli­ca ». Così, attraverso la mi­cro- storia della sua fami­glia narra anche la grande storia, quella dei Balcani dalle frontiere perenne­mente instabili e mobili, dei conflitti e delle tensio­ni, ma anche delle ricchez­ze culturali. In Italia sono pubblicati Il tempo delle capre e Sacrificio balcanico.

L’Europa sembra essere il destino naturale della Ma­cedonia e di tutti i Paesi della ex-Jugoslavia, quasi un mito capace di risolvere i problemi interni. Ma la crisi ne ha mostrato la de­bolezza, il rilancio dell’in­tegrazione si allontana e per la Macedonia l’attesa d’essere accolta nella Ue si fa frustrante. Senza l’Euro­pa, quale futuro si pone per i Balcani?

«Forse occorre ribaltare la domanda. I Balcani sem­brano essere il destino na­turale dell’Europa, un punto inevitabile tra Occi­dente e Oriente. Il destino dell’Europa durante la Grande Guerra si risolse nei Balcani e il risultato fu la monarchia jugoslava (invenzione di Clemen­ceau), che non riuscì a ri­solvere i problemi interni ed impose come criterio di governo la gerarchia etni­ca. L’esito fu la decomposi­zione fratricida del Paese e le illusioni dei vari staterel­li di recuperare il passato perduto attraverso una do­lorosa transizione che li avvicinasse al ritmo civile dell’Europa dei cittadini. I balcanici credevano di tra­sformare l’originalità delle loro culture in vantaggi e il sentimento nazionale, ten­dente al nazionalismo, mi­rava all’equilibrio tra l’i­dentità propria e l’accetta­zione dell’identità dell’al­tro, equilibrio difficile in sé ma ancor più difficile nei Balcani, com’è nel caso della Macedonia. Ma per avvicinarsi agli standard europei occorre tempo, la vera democrazia non è per domani. La transizione verso l’economia di merca­to ripete il déjà vu dei Paesi dell’est e la capacità del potere di risolvere i proble­mi del Paese è alquanto li­mitata. Si vive la fase del

panem et circenses , anzi più quella del circo che del pane».

La Macedonia non è etni­camente omoge­nea e la demogra­fia si fa politica. Gli albanesi – un quar­to della popolazio­ne – hanno tassi di fecondità ben più elevati dei mace­doni slavi, per cui tra una quindicina d’anni le due etnie si equivarranno.

Quali saranno le conseguenze lin­guistiche, culturali, ma anche strettamente politi­che?

«Credo che la ragione di queste statistiche delle dif­ferenti etnie non solo in Macedonia ma nella stessa ex-Jugoslavia venga dalla logica dei vecchi regimi che vedevano nella pre­senza albanese un perico­lo, malgrado il suo forte i­solamento specie nel pas­sato.

Oggi gli albanesi sono più che mai in movimento nei Balcani, ma anche in Europa ed altrove. Penso che l’armonizzazione dei rapporti di cittadinanza nelle società balcaniche sia la sola prospettiva degna di reali previsioni».

Trent’anni fa Tito moriva e la Federazione jugoslava cominciò a dissolversi so­lo dieci anni più tardi. Non si possono escludere nuo­ve fratture, come in Bo­snia, mentre la Macedonia non ha rapporti facili con i vicini. È realistico pensare ad un processo di ricom­posizione, almeno cultu­rale ed economico, dell’a­rea che fu la Jugoslavia?

«La creazione della Jugo­slavia fu il risultato della Grande Guerra. Anche la seconda Jugoslavia fu il ri­sultato di un’altra guerra mondiale. Tito riuscì a sal­vare l’equilibrio nella guer­ra fredda dell’epoca bipo­­lare, geostrategica, ideolo­gica. Ma non seppe creare istituzioni capaci di essere durevoli ed indipendenti.

Vennero però costruite delle grandi vie di comuni­cazione che devono anco­ra servirci a non isolarci; continuo a non vedere la ragione di separazioni e di­sintegrazioni e nemmeno del ritorno di frontiere che in tutta Europa sono in via di sparizione. Si esce dall’i­solamento degli spazi ex­jugoslavi anche attraverso l’uso dei percorsi già esi­stenti . Come ad esempio la romana Via Egnatia tra Brindisi e Bisanzio che vis­se per secoli nonostante le guerre tra imperi e che og­gi potrebbe essere ricalcata dal Corridoio 8. Credo che i caratteri nazionalisti delle frontiere balcaniche siano finiti. Ci credo profonda­mente e vi cerco la ragion d’essere nel mio lavoro let­terario ».

Ne «Il tempo delle capre» lei descrive in modo sur­reale l’irrazionalità del po­tere comunista, che voleva trasformare di colpo i pa­stori macedoni in classe o­peraia. Quali sono oggi le irrazionalità che snatura­no l’identità dei Balcani, la loro storia ricca, comples­sa, perfino «eccessiva»?

«Sono l’autore di una saga romanzata che racconta la storia di una famiglia alba­nese nell’esilio balcanico di un secolo partendo da una metafora globale fatta di capre, anguille (esseri migranti per eccellenza), giannizzeri, chiavi di casa (che ci portavamo dietro nell’illusione di poter un giorno tornare). La linea di questa saga passa nel pen­siero del bambino narrato­re, alter ego dell’autore, che dovrebbe rappresenta­re una salutare meditazio­ne sulla provvisorietà delle cose in generale e in parti­colare nei Balcani. Per ri­spondere alla domanda devo dire che immagino un altro romanzo dal titolo

Il ritorno delle capre. Si tratta del destino delle ca­pre cinquant’anni dopo.

Nei villaggi quasi deserti, in cui c’è fame ed emigra­zione – è la Macedonia dei difficili anni Novanta – non si riescono a creare degli o­vili nonostante l’aiuto e la tecnologia di una associa­zione francese di sviluppo zootecnico. Così le povere capre finiscono nelle mani della 'mafia caprina' (me­tafora della transizione) e presto scompaiono tra le montagne, divorate da lupi dal volto umano come quelli che descrissi ne Il tempo delle capre

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