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Risorgimento: fu la prima guerra mondiale il momento epico (Il Piccolo 28 mar)

di FULVIO SENARDI

Quando, nel 1824, Tommaseo giunse a Trieste, il “lungo Risorgimento” (Pécout), inteso come fenomeno culturale e ideologico, aveva da tempo iniziato a far balenare fra i ceti borghesi delle città italiane, in special modo del settentrione, il sogno della “libertà”. I moti del 1820-21 a Napoli e in Piemonte con le loro richieste costituzionali, pur nell’ottica locale in cui si svolsero, mostrarono l’insofferenza maturata nei confronti delle pratiche politico-amministrative della Restaurazione. Nel Lombardo-Veneto, dove la polizia impedì ogni scoppio rivoluzionario, molti fra i nobili progressisti e i borghesi che avevano animato l’esperienza del “Conciliatore” subirono l’arresto, e se, come è stato sottolineato, il movimento non era stato in realtà animato da “idealità nazionali, ancora vaghe” (Scirocco), è allora che comincia ad approfondirsi il solco tra italiani e potere asburgico che caratterizzerà l’intero moto risorgimentale. Dando inizio a quell’“inimicizia ereditaria” (Gatterer) che si protrarrà fino alla Grande guerra.

E Trieste? «Di nuovo a Trieste – scrive Tommaseo – nella barbara terra di Trieste tra il vortice della contumacia triestina ove accolgonsi genti d’ogni favella, d’ogni abito, d’ogni fede, d’ogni costume, e il commercio dimena le sue cento lingue. Una moltitudine affaccendata che inonda le vie, un andazzo di mercanti e di meretrici, un bisbigliare di varie lingue un misto di vari costumi, molta industria, poco ingegno, molt’arte, punto studio, molto moto, poca vita, tale è Trieste». L’italianità solo linguistica (e neppure questa integrale) della città di San Giusto la mantiene in effetti estranea alla grande epica popolare e nazionale del Quarantotto (Venezia, Milano, Brescia): le “genti d’ogni favella” che vi si raccoglievano vagheggiavano la prosperità e non la gloria sul campo, sotto un tricolore che non diceva nulla ai loro cuori.

Da qui – mentre l’italianità cittadina, rafforzandosi e acquistando consapevolezza, era sempre più incline a considerare come propria vera Patria il grande stato nazionale che stava formandosi a occidente – la sostanziale marginalità di Trieste rispetto al processo risorgimentale italiano: un passato imbarazzante per quei giovani che, all’alba del secolo, si sentivano chiamati a realizzare il destino italiano della città: «Trieste è italiana; è necessaria all’Italia; ma le manca una cosa perché l’Italia non la dimentichi, il martirio. Tutta una storia senza sangue pesa su Trieste», commenta istruttivamente Slataper, che scrive dell’irredentismo sulla “Voce”, indicando in Oberdan quell’agnello sacrificale che congiungeva idealmente l’Italia alla sua minuscola propaggine austriaca. In realtà si sbagliava perché obbedendo al richiamo di Garibaldi, non pochi mazziniani e repubblicani delle frange più estreme dell’irredentismo giuliano avevano versato il loro sangue nella terza guerra di indipendenza (l’elenco dei volontari si legge in appendice alla ”Memorie garibaldine” di Rodolfo Donaggio). Ma il vero momento epico del “Risorgimento” triestino è l’esperienza del volontariato nella Prima guerra mondiale, quando più di 1700 giuliani, istriani e dalmati (Todero) disertano o espatriano per vestire il grigio-verde. Giunto a Firenze nel 1911, Giani Stuparich sentì nascere in lui un pensiero che avrebbe ispirato l’azione di tutti quei giovani: “quella era l’Italia”, racconta, «per cui io sentii senza alcuna titubanza che sarebbe stato bello morire». Episodio fulgido e di cui è giusto andar fieri. Ma che non deve farci dimenticare (o disprezzare) il “patriottismo dinastico” di molti giuliani d’allora (o, se preferiamo, la loro pacifica accettazione dell’appartenenza statuale austriaca), e ci si riferisce a quei 50mila che indossarono il feld-grau; né, tanto meno, che tale tardivo scoppio di entusiasmo risorgimentale nasce, oltre che nel segno di un sincero patriottismo, anche nel mito di una Trieste “monolitica” (Ara-Magris), in attesa fremente della “redenzione”. Ma è un mito che, imposto come un articolo di fede (e che ancor’oggi echeggia in certi ambienti), renderà sordi se non ostili alle legittime esigenze dell’“altro” nella città plurale.

La patria per tutti di Mazzini (diritto cioè alla libertà esteso ad ogni popolo) si apprestava a diventare così la patria contro tutti (o peggio, über alles) del nazionalismo e del fascismo.

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