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Riflessioni mariniane fra le due coste adriatiche (Voce del Popolo 28 feb)

TRIESTE – Per sottolineare il legame tra il poeta gradese Biagio Marin (1891-1985) e l’Istria, nel settembre 2007, è uscito un volume antologico intitolato “Le due rive. Reportages adriatici in prosa e in versi”, curato da Marco Giovanetti, ed inserito nella collana “Lo spazio adriatico” (Diabasis, Reggio Emilia, pp. 168). L’opera è stata realizzata con il contributo del Dipartimento di Italianistica Linguistica Comunicazione Spettacolo dell’Università degli Studi di Trieste – INTERREG IIIA Transfrontaliero adriatico-Progetto VIAGGIADR. Nell’ambito di tale programma di ricerca, incentrato sui “Viaggi adriatici”, che coinvolge diversi atenei, l’attenzione è rivolta anche al recupero e alla riproposizione di autori provenienti dall’area geografica presa in considerazione. Per poter meglio comprendere la visione adriatica degli scrittori vicini a questa realtà, si è ritenuto opportuno raccogliere in agili volumi i loro testi, in modo da avere a disposizione, in una sede unica, i loro contributi, spesso di difficile consultazione in quanto pubblicati, in buona parte, sulla stampa periodica e/o sui giornali locali. Nella collana summenzionata è stato inserito pure quello contenente i lavori di Fulvio Tomizza, ossia “Adriatico e altre rotte. Viaggi e reportages”, curato da Marta Moretto. Il gruppo di lavoro del capoluogo giuliano ha reputato d’interesse anche un’indagine su Marin prosatore, ossia scrittore di prose dedicate ai viaggi, o ai ricordi di spostamenti tra le due sponde adriatiche. Nell’edizione sono stati raccolti testi datati tra la fine degli anni Quaranta e la fine degli anni Sessanta del secolo scorso, pubblicati sul “Messaggero Veneto”, su “Il Piccolo”, sulla “Voce Giuliana” e sul “Giornale dell’Istria”. Il curatore altresì ha messo a fronte testi mariniani in prosa e in poesia, in dialetto, e ciò arricchisce ulteriormente l’edizione in quanto il lettore riscontra gli stessi luoghi ed i medesimi problemi espressi in due forme diverse. Marco Giovanetti scrive a proposito: “confrontando queste composizioni con gli articoli in prosa, si nota immediatamente l’interscambio tra i due diversi tipi di resoconti; le prose sembrano quasi le parafrasi delle poesie, e le stesse poesie una sintesi delle prose” (p. 19).

Vicino all'Istria

La penisola istriana era intimamente vicina al Nostro, in primo luogo per il fatto di aver frequentato, negli anni giovanili, il liceo a Pisino, ma anche perché la sua isola nella laguna era inserita in quella fitta rete di rapporti esistenti tra gli opposti lidi dell’Adriatico, che metteva in contatto gli uomini, le merci e la cultura. “Molte volte si è detto che Marin ebbe l’incontro con l’Istria nel 1908, con l’arrivo alla Scuola Reale Superiore di Pisino – annota il curatore –, ma il poeta aveva scoperto l’Istria molto prima, ancora fanciullo. Il padre gestiva l’osteria 'Alle tre corone' a Grado, e teneva un magazzino all’ingrosso di vini istriani, di cui si riforniva personalmente recandosi in Istria con il trabaccolo. Agli occhi di Marin bambino, il padre diventava un comandante che solcava il mare in cerca di paesi sconosciuti, mentre lui e il fratello Giacomo restavano incantati nel sentire, di volta in volta, le future fantastiche destinazioni: Pirano, Rovigno, Daila” (p. 11). Per comprendere il legame intrinseco che lo univa a quella terra rinviamo a “Incontri con l’Istria” (pp. 28-31), in cui afferma che quella terra “è stata uno dei miei grandi amori”. Per le popolazioni rivierasche la via del mare rappresentava il vettore per antonomasia, che collegava le cittadine, e che storicamente generò quella osmosi che aveva forgiato il vivere di quelle comunità, tanto che è possibile parlare di una civiltà adriatica, con aspetti caratteristici che prescindono dalla lingua parlata – o meglio dal vernacolo – o, successivamente, dall’appartenenza nazionale. Gli eventi del secondo dopoguerra sconvolsero – per la prima volta nella storia – i collegamenti in senso lato attraverso quelle latitudini; la cortina di ferro che scendeva dal mar Baltico terminava e si bagnava proprio nelle acque adriatiche. Tale cesura aveva determinato un trauma e contribuì non poco ad ingrossare le file dell’esodo, i cui esiti furono catastrofici per la componente italiana. “L’offesa” provocata in quel frangente storico e la frattura verificatasi in quell’area che, sebbene mai unitaria politicamente, aveva comunque conosciuto una sua coesione, è esplicitamente trasmessa nell’opera di Biagio Marin, in cui traspare il languore per quelle terre ormai perdute, divenute improvvisamente “lontane” e sovente oltraggiate dai nuovi padroni, incapaci di cogliere la loro peculiarità e la ricchezza culturale ivi presente.

Itinerari sentimentali

Cosa ha scritto l’autore de “I canti de l’isola”? Come annota Elvio Guagnini, ordinario di letteratura italiana all’ateneo tergestino, che ha firmato la prefazione, “le pagine di Marin non sono appunti di diario, non sono appunti presi (come si dice) sullo zaino. Sono però viaggi veri raccontati, stimolo al ricordo di altri viaggi. Sono viaggi nella memoria, nella nostalgia, itinerari sentimentali, recupero di sé (…). Sono pagine, quelle di Marin, ricche di pathos lirico, eppure puntuali, dettagliate anche nel ricordo minuto. Sono anche una guida all’Istria, alla sua gente, alle sue vicende, soprattutto le tragedie recenti” (p. 9). Il nostro, che è definito uno scrittore-giornalista anziché un giornalista scrittore, è in primo luogo un poeta, e alla nostra terra ha dedicato la celebre silloge “Elegie Istriane”. Sulle colonne del “Messaggero Veneto” il poeta-scrittore dell’Isola d’Oro, nel 1948, propose una serie di reportages dedicati alle località istriane. Uscirono pertanto gli “Acquerelli d’Istria” con note su Salvore, San Lorenzo di Daila e Daila stessa, oppure gli scritti su Parenzo – rammenta “a sera i bragozzi chioggiotti arrivano in riga con le vele di fiamma e gettano l’ancora in mezzo al suo specchio” o, ancora, “il veneto dolcissimo dei parentini suonava più alto nella calle e quando passavamo, le ragazze s’affacciavano alla finestra, accanto ai gerani” (p. 41), su Cittanova, su Orsera, sul Quarnero – “queste terre, questi golfi, queste fate morgane sul fondo celeste, questi incanti di azzurro io li conosco da sempre; ne parlavano anche i nonni quando di qua tornavano a l’isola nostra e mi portavano i fichi dolcissimi a sacca, e il miele che dava le vertigini di tanto profumo e l’olio che era acre e pesante. Il trabaccolo odorava tutto di strane essenze e serbava la eco di voci lontane, di altre genti” (p. 54) –. Sul “Giornale dell’Istria”, all’inizio degli anni Cinquanta del secolo scorso, la sua penna vergò alcune pagine su Lussino e Volosca. Nel secondo dopoguerra gli scritti concernenti l’Istria non sono privi di struggimento, perciò la manifestazione del suo dolore, derivante dal dramma che aveva percosso quella terra, è sempre presente ed evidente. Tali sentimenti li cogliamo, ad esempio, in “La sera di Capodistria” in cui il poeta ricorda la sua trasferta nella città di San Nazario (20 maggio 1957) per assistere alla celebrazione di Carlo Goldoni, promossa dal Console Generale d’Italia, dott. Zecchin. Nella riflessione sottolinea: “il nostro stato d’animo come era? L’anima triste e chiara, e il cuore in tumulto. Capodistria! Un millennio di vita veneziana: una cittadina di squisita cultura italiana: ed ora, ecco eravamo venuti a commemorare Goldoni in una città che si chiama Koper, ed appartiene alla Repubblica Slovena” (p. 78). In una considerazione dell’anno successivo, “Nostalgia d’Istria”, il Nostro dalla riviera di Barcola guardava la costa prospiciente e “all’estremità ponentina, sorgeva dal mare quasi isolato, San Giorgio di Pirano. Guardavo e non potevo distaccare lo sguardo. Era ben il nostro San Giorgio e noi lo avevamo costruito, non ieri, ma un tempo lontano” e nel prosieguo si sofferma su quei collegamenti così vivi ed importanti tra un punto e l’altro dell’Adriatico di cui abbiamo già parlato. Dalla patria di Tartini, ove la gente “parlava un linguaggio saporitamente veneto” Marin evidenzia “e quanti bravi uomini erano venuti da quel fitto di case poste alla bonaccia! Forti e coraggiosi i suoi renaioli venivano a rubarci la sabbia sulla 'mula di Muggia' che era un banco affiorante che proteggeva Grado e l’isola della Rotta; venivano alle foci dell’Isonzo a caricare i loro splendidi trabaccoli di sabbia o di ghiaie, che portavano a Trieste. Trieste era la loro città. Qui nostromini, qui impiegati, qui avvocati, qui medici piranesi. Persino il podestà era di Pirano. E come ora è la volta dei rovignesi (si riferisce al sindaco Gianni Bartoli e al vescovo Antonio Santin, nda) allora erano i piranesi a dare le gerarchie alla città” (p. 101).

Poesia di una terra

Ben presto, però, esprime una lucida valutazione sulla situazione di quel momento, e cioè che il passato era definitivamente passato e che del medesimo si poteva fare esclusivamente solo poesia o storia, non certo più politica. “Poesia dell’Istria! Ché l’Istria è una terra meravigliosamente bella, per quel suo carattere roccioso e marino. Incomincia qui lo sposalizio del liquido azzurro mare con la roccia bianca del Carso, incomincia qui quell’amore tormentoso e pur sempre fresco, sempre melodioso del mare per gli scogli, per i dossi affioranti, per i porti fondi nelle valli, per i canali tra le isole e la terraferma. Mare inquieto e terra ferma serena, sui grandi banchi di calcare, sui promontori larghi, sui colli altalenanti. Terra rossa d’amore con sopra olivi grigio verdi, contorti e spaccati nei tronchi, ma ariosi e leggeri nella corona, nell’aria incantata del fermo fogliame. E allori scuri e lustranti e alti svettanti cipressi intorno alle case e ombrose noghere” (p. 102). Altri ricordi riemergono in scritti quali “Gita a Daila” o “Immagini e ricordi di Pisino”. Nel volume sono inseriti anche le prose relative all’isola di Grado e alla pesca, l’attività principale dei suoi abitanti, “A Levante dell’isola”, “Variazioni gradesi”, ed in tutte è sempre presente il legame con le terre dirimpettaie e la rimembranza dell’Istria.

Kristjan Knez

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