Ricordi di un viaggio: un addio all’Istria

Non ricordo bene il giorno, credo fossero i primi di aprile del 1949 a Parenzo. 

In casa c’era un gran daffare e un andirivieni di persone: si incominciava a imballare quelle poche cose che si erano salvate dalle macerie dopo il bombardamento del 25 aprile 1945. C’era inoltre da marchiare ogni masserizia e ogni cassone col numero del passaporto provvisorio che per noi era il N° 14294. Tra le tante persone (tante forse solo per me non abituato a vederne tante in casa), la chiusura dei cassoni con le “strasse” (biancheria) si doveva farla in presenza dei due drusi (titini) che controllavano ogni cosa. Messo tutto in una stanza che poi veniva sigillata noi ci siamo arrangiati in cucina e sul pianerottolo dormendo per terra.

Il mattino del giorno 9 i drusi hanno rotto i sigilli e tutte le masserizie sono state portate al porto e caricate su due dei tre pescherecci venuti apposta da Trieste e, visto che il tempo si stava guastando sono subito ripartiti. Il terzo peschereccio era per noi. Nel primo pomeriggio tutti in dogana per il controllo personale e nelle borse, a tanti han fatto perfino togliere le scarpe, poi tutti a bordo del motopesca. Nel frattempo il mare si era ingrossato e la partenza è stata rinviata. A bordo eravamo circa 115 persone, non si poteva più scendere a terra e non si poteva partire: in fondo al molo Venezia hanno piazzato una mitragliatrice sul relitto mezzo affondato dall’ultimo bombardamento, una mitragliatrice sulla Riva e un’altra su di una imbarcazione all’ancora poco distante. 115 persone più tre dell’equipaggio per tutta la notte su di un motopesca di circa 15 metri, non c’era il bagno, c’era il bugliòlo (in marineria è il secchio). Il capitano o comandante ha iniziato a raccontare dei frequenti viaggi che faceva tra le coste istriane e Trieste trasportando profughi, mi sono addormentato più tardi del solito ma per gli adulti deve essere stata una notte interminabile.

Dopo il sorgere del sole e visto che il mare stava calmando, ci hanno dato il permesso per partire e dopo due giorni di digiuno e senza una goccia d’ acqua siamo arrivati a Trieste verso mezzogiorno. Per tanti di noi c’era la sistemazione nel Silos, per me un posto orrendo: non ricordo di aver mai visto una lampadina accesa. Uno sgabuzzino senza finestra era la nostra nuova casa; le latrine erano senza acqua però per terra era sempre tutto bagnato; la cucina o dove servivano da mangiare era al piano terra in fondo a destra. C’era poca luce e muri anneriti dal tempo. Non ricordo cosa ci davano da mangiare.

Dopo qualche giorno, la partenza da Trieste è stata un sollievo. Finalmente a Udine. Ho dormito in un camerone dove le brande erano sistemate lungo i due muri nel senso della lunghezza, non le ho contate ma potevano essere una trentina su ogni lato, senza divisori, a portata di ogni sguardo, non ricordo di aver visto o sentito cose strane, dormivo profondamente. Una cosa mi ha particolarmente colpito in quel che forse era un campo militare o caserma: la gran quantità di filo spinato (dopo molti anni, solo attorno al campo profughi di Altamura ne ho visto tanto!). Dopo 8 giorni ci hanno trasferiti a Bari.

Sergio Servi

Fonte: Comitato provinciale di Udine dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia

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Il certificato di profugo della famiglia Servi
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