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Quelle voci italiane dal ”purgatorio slavo” (Giornale di Brescia 25 mar)

Nella storia della letteratura della nostra minoranza in Istria e a Fiume un affresco sfaccettato di quanto i «rimasti» hanno prodotto in oltre 60 anni, cercando di difendere un’identità sempre osteggiata

In quella bellissi­ma baia l’inferno era per tutti. Per quelli che, in conti­nuo ammollo fino al petto, do­vevano paleggiare come for­sennati e per quelli delle “avie­re” (specie di tavole di legno con manici per portare sabbia o cemento, ndr), senza un atti­mo di sosta, come i somari le­gati alla ruota del pozzo. Se nei mesi estivi questo lavoro era ai limiti della sopportabilità, già con le prime bore d’ottobre si tramutava in una fatica di dan­nati».

Al tempo in cui Ligio Zanini tratteggiava nel romanzo «Martin Muma» la propria per­sonale odissea di dissidente, era severamente proibito par­lare, tantomeno scrivere, di Goli Otok, o «Isola Calva», lo scoglio degli orrori nascosto tra le meraviglie naturali del­l’Alto Adriatico dove il Maresciallo Tito rinchiuse e torturò i comunisti filo-sovietici, do­po la rottura del 1948 con Mo­sca. Infatti, il libro dello scritto­re e poeta istriano di Rovigno uscì solo nel 1990. Qualche de­cennio dopo l’elaborazione. Come Zanini, altre decine di artisti ed intellettuali della mi­noranza italiana produssero le loro opere in «una condizio­ne d’isolamento culturale», sa­pendo di essere, in definitiva, «italiani sbagliati», secondo l’efficace definizione di Qua­rantotti Gambini, ripresa da Nelida Milani nella sua presen­tazione di «Le parole rimaste: storia della Letteratura della Comunità nazionale italiana (1945-2010)», per i tipi della Edit di Fiume.

Affresco di un mondo di fron­tiera, nel quale dirsi «italiani» ha significato per almeno quattro decenni vivere dentro un purgatorio in cui era imperativo legittimarsi continua­mente come cittadini «degni» di rispetto nel nuovo Stato so­cialista. «Esodo» e «Goli Otok» erano inesistenti nella narrati­va.

«Il cavallo di cartapesta» di Osvaldo Ramous, scritto tra il 1967 e il 1969 e pubblicato so­lo quarantanni dopo, è un classico esempio di questa «letteratura del silenzio». Il di­rettore del Dramma Italiano descrive la sua città, Fiume, completamente trasfigurata dopo la cessione alla Jugosla­via: «Camminando per le stes­se vie i rincontri erano rarissi­mi. Altrepersone, facce scono­sciute, espressioni per lui er­metiche, gli davano l’illusione di trovarsi in un ambiente nuo -vo e curioso. Ma l’assetto im­mutato delle case gli ricordava subito che quella era la sua cit­tà, e gli faceva provare l’avvi­lente sensazione di essere diventato straniero nel luogo stesso che gli aveva dato i nata­li».

I temi «scomodi» si potevano «intravvedere molto larvata­mente fra le righe in poesia», annota la Milani, ella stessa esponente di spicco di quel­l’intellighenzia italiana in lot­ta tenace e perenne per non farsi «assimilare» dall’ondata slavizzatrice.

Per noi, lettori italiani, che so­lo da pochi anni abbiamo co­minciato a familiarizzare con le foibe e l’esodo giuliano-dal­mata, queste «Parole rimaste» sono la chiave di ingresso in un universo letterario semi­sconosciuto, che vale assoluta­mente la pena di conoscere. Perché è la voce colta di una «piccola Italia», quella di chi è rimasto anche a presidio tena­ce della cultura latino-veneta, in una terra di grandi passioni collettive e immani tragedie.

Valerio Di Donato

 

(courtesy MLH)

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