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Quarantotti Gambini, un italiano sbagliato (Il Piccolo 23 feb)

di ELVIO GUAGNINI

Un'importante recensione di Montale (in "Pègaso", 1933, f.I) al primo libro di Quarantotti Gambini, ”I nostri simili” (Firenze, Solaria, 1932) si concludeva con un giudizio e un ammonimento perentori: «Ha un suo istinto, un suo stile, un suo coraggio. Non gli si attacchi vanità di mestiere, fretta e volontà di strafare, e domani saremo in molti a meravigliarci di lui». Più di un decennio dopo, Umberto Saba, in una lettera del 12 gennaio 1946, Saba pronunciava un giudizio fermo e sicuro sul posto occupato dal più giovane amico nella letteratura contemporanea, anche in rapporto al ruolo di Trieste: «Trieste ha dato all'Italia, da trenta e più anni a questa parte, il suo migliore romanziere (Svevo), il suo miglior poeta (Saba), il più impressionante poeta popolare (Barni), e adesso ha dato il più luminoso e complesso dei suoi giovani narratori (Pierantonio Quarantotti Gambini)». Al quale, peraltro, già a proposito della Rosa rossa, nel 1937, Saba aveva riconosciuto l'assenza di qualsiasi provincialismo e la grande limpidità di stile. Osservazioni decisive per collocare Quarantotti Gambini nel panorama letterario di allora.

Pier Antonio era nato a Pisino d'Istria il 23 febbraio 1910; e aveva vissuto molti dei suoi anni giovanili e Semedella – vicino a Capodistria, dove sarebbe rimasto fino alla fine del liceo – nella casa del nonno materno. Dal 1929 al 1932 studiò legge a Milano (laureandosi più tardi a Torino), iniziando – già nel 1929 – una collaborazione con "L'Italia letteraria" e, nel 1931, con "Solaria".

A Trieste, nel 1929, conobbe Saba, con il quale mantenne un'amicizia profonda; ed entrò anche in rapporto con Giotti e Giani Stuparich. Con Svevo, gli incontri furono invece occasionali. Dopo la morte dello scrittore triestino e la lettura di ”Senilità”, avvertì un interesse particolare, avvertendone però la distanza, per il fatto – scriveva – «ch'io non sempre riesco ad amare la letteratura in cui serpeggi l'umorismo». È un fatto che l'incontro di Quarantotti Gambini con alcuni grandi triestini e – da un altro lato – quello con la cerchia della fiorentina "Solaria", lo avrebbe portato all'elaborazione di una poetica moderna, verso lezioni di arte e di stile in linea con la nuova letteratura europea. "Solaria" si proponeva, tra gli anni Venti e Trenta, di dare un respiro più ampio alla letteratura italiana, di promuovere un'«arte singolarmente drammatica e umana» contro ogni genere di «stilismi e purismi esagerati», rifiutando i tratti della letteratura ufficiale di allora e cercando i propri modelli nella grande tradizione europea in cui contasse una carica umana e una presa di coscienza autentica della realtà.

In questo contesto, nacquero i primi libri di Quarantotti Gambini : il già citato ”I nostri simili” (1932) e il romanzo ”La rosa rossa” (Milano, Treves, 1937). Nel primo, che Giacomo Debenedetti definì "troppo e troppo poco letterario", lo scrittore proponeva una ricerca sulle ambiguità interiori, sull'inettitudine, sulla contraddittorietà dei sentimenti, sulle frustrazioni, sugli enigmi identitari dei personaggi. Una ricerca che tendeva a liberarsi da una troppo costrittiva analiticità e dall'impeto della ricerca psicologica verso esiti di maggiore omogeneità e profondità. L'inquietudine di Quarantotti Gambini anche sul piano umano – era testimoniata anche da alcune lettere (del 1932) ad Alberto Carocci, direttore di "Solaria", al quale il giovane certificava la solitudine – a Trieste – di scrittori come quelli ai quali si sentiva legato (Saba, Stuparich, Giotti) oltre che la propria, una situazione non certo avanzata sul piano culturale («… spesso si parla di Trieste come di una città all'avanguardia. All'avanguardia, invece, sono due o tre persone; il resto della città ha gusti che in tutt'Italia sono superati»), un desiderio di evasione alla ricerca di condizioni diverse: «In certi momenti mi sento bruciato dal desiderio di andare via, di uscire dall'Italia. Se penso che esiste un mondo grande, e che io vivo chiuso in una casa di Trieste, mi viene voglia di scappare».

”La rosa rossa” (1937), libro di sicura maturità, esprimeva, in termini artisticamente complessi, il bisogno di una analisi retrospettiva e di bilancio del mondo da cui l'autore usciva, prima di approfondire altre possibilità. Un romanzo, ricco di "musicalità", di qualità formali e di effetti "di atmosfera" – come è stato osservato – che intendeva fornire il ritratto di una provincia già dell'Europa absburgica rivissuta al momento della sua trasformazione (il libro è ambientato a Capodistria), dopo la fine della Prima Guerra : un'immagine della "provincia", della mentalità, delle consuetudini familiari e sociali, dei rapporti con i ceti subalterni, della piccola nobiltà con le sue stratificazioni gerarchiche, che si intreccia con un'altra immagine, quella del conservatorismo "illuminato" di qualche lucido testimone della scomparsa del vecchio mondo, di chi aveva conosciuto – nell'Europa absburgica – un respiro di vita e di cultura mai dissolto dalla guerra mondiale.

A questo romanzo fece séguito – nel 1947 – un altro libro centrale di Quarantotti Gambini, ”L'onda dell'incrociatore” (Torino, Einaudi), premio Bagutta 1948. Un romanzo che affrontava la difficile tematica della scoperta del sesso da parte di alcuni ragazzi abitanti nelle "canottiere", le case galleggianti sedi di società remiere e veliche ormeggiate nella Sacchetta di Trieste : un'ambientazione suggestiva per una giornata particolare – nel 1935 – nella quale sfilavano sulle rive i reduci d'Africa; e in cui uno scherzo architettato da due amici dava luogo alla tragedia della morte , per annegamento, di un vecchio alpino venuto a Trieste per la manifestazione. Un romanzo dove il rapporto tra infanzia, adolescenza ed età adulta veniva esplorato nei suoi lati oscuri, nei turbamenti, nelle angosce, nei sogni che accompagnano le curiosità e le ambigue attenzioni dei giovani che attendono l'integrazione nel mondo degli adulti, ne vengono attratti e respinti, aspirano a una libertà diversa da quella dei "grandi" che sono oggetto delle loro attenzioni. Un'esplorazione, quella proposta da questo romanzo, che – dall'età giovanile – si allargava, attraverso la rappresentazione di un'educazione sentimentale e umana, agli enigmi dell'esistenza, alla presa di coscienza della propria realtà, alla scoperta della vita al di là dei miti e dei sogni dell'infanzia.

A questo romanzo, di grande compattezza e unità, fa riscontro una grande opera – tra autobiografia e finzione – alla quale l'Autore lavorò dal 1939 fino alla morte (1965) : un progetto che venne perseguito attraverso la composizione di romanzi e racconti successivi che si prospettavano come un grande ciclo, il "ciclo di Paolo" (il protagonista è Paolo de Brionesi Amidei, còlto in momenti diversi della sua vita tra infanzia ed età adulta), le cui tessere sono state raccolte nel volume ”Gli anni ciechi” (Torino, Einaudi, 1971): un genere di «narrativa molto particolare», scriveva Quarantotti Gambini, poiché «in essa solo lo sfondo, l'epoca e l'ambiente sono reali: le vicende su cui si imperniano i singoli racconti (dal Cavallo Tripoli, all'Amore di Lupo e ai Giochi di Norma) sono invece inventate, come sono immaginari alcuni loro protagonisti; esse sono inventate, però, in modo da esprimere una realtà che ho conosciuta». Da ciò, la sensazione di trovarsi di fronte a «storie che hanno la parvenza dell'autobiografia».

Del resto, secondo una strategia affine, era stato costruito il romanzo, dall'impianto macroscopico e complesso, ”La calda vita” (Torino, Einaudi, 1958), un'opera – che la critica ha visto come eccessivamente macchinosa – che rappresenta i rapporti di tre ragazzi (Sergia, Fredi e Max) in alcuni giorni trascorsi su un'isola deserta della costa istriana: un racconto tra presente e memoria, forza istintuale e angoscia, eros e inquietudine, violenza e innocenza.

Autore di libri di viaggio e di poesia, Quarantotti Gambini ha scritto importanti volumi rievocativi e di testimonianza. Come ”Primavera a Trieste” (Milano, Mondadori, 1951), rievocazione dei giorni drammatici dell'insurrezione della fine di aprile 1945 contro i Tedeschi e sull'occupazione della città da parte delle truppe jugoslave. Un periodo difficile per la città e per l'autore, epurato e destituito dal suo incarico ad interim di direttore della Biblioteca Civica – nonostante il riconoscimento del suo atteggiamento antifascista – per essere stato assunto sulla base di una raccomandazione del ministro Bottai. Abbandonata Trieste per Venezia, Quarantotti Gambini vi diresse, dal 1945 al 1949, Radio Venezia Giulia, una emittente clandestina voluta dall'ex deputato socialista di Pola Antonio De Berti e diretta agli italiani della Venezia Giulia e ai profughi dall'Istria.

A conclusione dell'importante intervista a Gian Antonio Cibotto ("Fiera letteraria" 15 novembre 1964), Quarantotti Gambini affermava: «Se un giorno dovessi scrivere la mia autobiografia, la intitolerei ”Un italiano sbagliato”. Come uomo, sento di essere qualcosa di simile a uno straniero in patria. Proprio quel modo di essere e di pensare che poteva fare di me un cittadino normale in un'ipotetica Italia un po' nordica e molto europea (quell'Italia per cui i giuliani sospiravano ai tempi della loro soggezione all'impero austro-ungarico, senza rendersi conto ch'essa, in realtà, non esisteva), mi mette fuori fase tra la maggior parte dei nostri connazionali. Da qui un continuo disagio , e l'impressione di essere, appunto, un italiano sbagliato. Impressione che non può non fondersi con un certo disdegno, che amerei non fosse orgoglioso», in cui c'entra «la consapevolezza di essere riuscito a mantenere – almeno così spero – un certo autocontrollo e un certo riserbo nel vivere una vita tra le più difficili della mia generazione letteraria».

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