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Non ci sono vestiti adatti per andare a Basovizza (Riv.Anarchica apr 10)

di Milena Magnani

Un racconto per riflettere su foibe, identità, memoria, scuola, ecc.

Noi che siamo i nipoti dei Napoletani mandati dal Duce per italianizzare la Venezia Giulia e abbiamo le mani fredde per la bora.

Noi abbiamo provato ad andare a Basovizza intorno all'imbocco della foiba, abbiamo provato ad andare a vedere e c'erano tante persone riunite in cerimonia. In un primo tempo abbiamo notato il numero e poi abbiamo notato le camice nere che indossavano. Erano ragazzotti soprattutto, qualche esaltato con il tricolore e l'aquila, ed altri che cantavano gli inni del Duce alzando il braccio in un saluto romano.
 

Siamo tornati a casa in silenzio

Qualcuno ci aveva detto che i tempi erano maturi per andare a piangere i morti, tutti, per andare a piangere i morti di tutte le fazioni contrapposte di un periodo che aveva impregnato questa terra di sangue. Che il carso, ce l'ha spiegato un giorno un maestro. è come una spugna che ha assorbito il sangue di troppe ferite incrociate della storia. E infatti stavamo andando là e con noi c'era anche la vicina di casa di mio padre che è di origine istriana.

Era mattina e dopo il vento dei giorni prima il cielo era terso e la luce era forte. Di colpo mio padre ha detto che non era una cerimonia come lui la immaginava, ha detto con la vicina: ci scusi, ma noi, anche se mio padre simpatizzava con i fascisti, noi non siamo “camiciati” di nero, e quindi torniamo indietro.

Anche la signora era a disagio. Si capiva. Ha tergiversato un attimo poi ha espresso l'intenzione di tornare indietro al nostro fianco. Siamo tornati a casa in silenzio e io in macchina ho mangiato un dolce austriaco. Non so perché riferisco questo particolare, forse perché qui la storia oltre che nell'aria è anche in tutto quello che si mangia.

Ma mentre mordicchiavo il mio kranz lo domandavo: perché torniamo indietro papà?

Mio padre mi ha spiegato che il Duce, a suo tempo, ha fatto tanti morti, e che non si indossano gli abiti di un criminale vestito di nero per andare a piangere i morti fatti da un criminale vestito di rosso. E poi mi ha detto che per lui vale ovviamente anche l'opposto, e quindi non vestirà mai gli abiti di Tito che era il criminale rosso per andare a piangere i morti fatti dal criminale nero.

E che abiti andiamo a metterci babbo per tornare in quel posto? Non ci sono ancora abiti per queste cose, ha detto mio padre, è meglio stare vestiti come siamo e stare a casa.

Il ricordo di un dolore opposto

Questo è capitato qualche anno fa. Da quel momento in avanti alla foiba di Basovizza non ci siamo andati più.

Nel frattempo per spronarci a celebrare il lutto dei profughi istriani, le istituzioni ci rammentano ogni inverno con più impeto la ricorrenza della Giornata del Ricordo. Ma i ricordi delle persone qui sono diversi e multiformi e non ci stanno dentro singoli giorni. Solo che cambi strada o condominio c'è il ricordo di un dolore opposto. Per ogni infoibato ad esempio, mi ha spiegato mio padre, c'è un morto assassinato anche dall'altra parte.

Per ogni partigiano che ha avuto la stelletta al merito, ce n'è anche un altro fatto fuori dai combattenti Titini perché ideologicamente non allineato, perché anarchico e troppo libertario.

Non è facile da accettare. Dicono che il tempo placa le ferite della storia. Sì ma qua sembra che i fronti del dolore invece che placarsi con il passar del tempo si moltiplichino.

Una volta, forse perché ero bambino, credevo che i fronti del dolore fossero due, poi ho capito che forse sono stati tre, quattro cinque e sei.

Il dolore della minoranza slovena, ad esempio. Quegli sloveni che si erano trovati in questa Venezia Giulia sotto il dominio fascista, loro non avevano dovuto cambiare cognome? Non gli era stato impedito di parlare la propria lingua madre? Non sono stati sottoposti alla reclusione forzata nei campi?

Come si chiamava quel campo di concentramento? Gonars?

E quindi mentre gli istriani piangono nel giorno del ricordo, gli italiani di minoranza slovena piangono in un altro giorno? Forse, mi dico, piangono nel giorno della memoria, giorno in cui si commemorano le vittime delle persecuzioni e delle deportazioni naziste e fasciste. E il risultato qual è? Che un gruppo piangerà il 10 febbraio e l'altro il 27 gennaio? Però le lacrime cadono sulla stessa terra. Che strana e ingarbugliata faccenda.

Mio padre un giorno mi ha raccontato la storia di un gruppo di Goriziani e di Monfalconesi che optarono per trasferirsi in Slovenia per costruire una società comunista. Quelli che, mentre gli optanti istriani abbandonarono l'Istria passata sotto il dominio jugoslavo, fecero invece la strada inversa e abbandonarono l'Italia per costruire il comunismo d'oltre confine.

Dice che non si è mai saputo spiegare perché i combattenti di Tito attuarono contro questi una persecuzione puntuale e trasversale. E perché poi quando cercarono di rientrare in Italia vennero vissuti come traditori della patria, sovversivi e devianti. Quando li piangiamo questi? Che divisa indosseremo per piangerli?

E che dire poi degli strati geologicamente più sommersi? Delle sepolture precedenti della storia? Già perché se questa terra ha un primo strato di dolore, sotto ce n'è un secondo. E non a caso poco sotto i morti dell'otto settembre, e accanto agli infoibati, stanno anche gli Italiani di Caporetto morti solo ventisei anni prima. Potevano essere i fratelli maggiori o i padri dei primi. Quelli quando li vogliamo piangere, il 22 ottobre?

Non so se riesco a padroneggiare una possibile visione della storia passando attraverso tutta questa irrisolta faccenda.

Nel frattempo, da qualche anno, al nostro calendario commemorativo si sono aggiunte le celebrazioni per il crollo dei confini italo sloveni, e infatti io e mio padre siamo stati alla grande festa di rimozione delle sbarre di frontiera al valico di Fernetti.

Non so dire quale fosse l'emozione. Di certo però questo smantellamento non ha dato alcuna spinta a un'istanza di riappacificazione.

E la minoranza slovena?

Non vorrei che qualcuno avesse fantasticato che circoscrivendo il dolore dentro il contesto limitato di un giorno ufficiale, ci sarebbe poi stato tutto il resto dell'anno per lasciarlo seccare come carbone, in modo da poterlo maneggiare come una materia inanimata, un fossile, un sasso da potersi togliere dalla scarpa.

Mio padre dice invece che ciò che non viene dissotterrato, scoppia tutto d'un tratto, tra le mani, mentre si fanno le cose di tutti i giorni e non c'è modo di salvarsi. So di dire il vero se riferisco delle invidie di una certa parte della cittadinanza verso i discendenti dei profughi istriani. Quell'invidia tutt'ora borbotta e ha come oggetto i sussidi dello stato che le famiglie degli esuli hanno ricevuto nel tempo. E non invento se dico che qualche giorno fa un signore che al bar ha detto che ora gli istriani vendono le case che gli lo stato italiano gli aveva costruito, si intascano il ricavato e poi chiedono pure la restituzione dei beni espropriati loro in Istria. Non invento se riferisco di aver sentito dire che si sono arricchiti due volte.

E la minoranza slovena? Come se la passa? Si sono fatti ridare indietro il loro originario cognome? E che dire del ritorno finalmente celebrato della loro lingua di minoranza? E un riscatto o un’invasione vedere che gli italiani corrono a iscrivere i loro figli nelle loro scuole? Perché lo fanno? Perché la scuola italiana sta precipitando a picco? O perché c'è davvero una spinta all'intercultura e al bilinguismo come espressione di convivenza riuscita?

Mi sbaglio o anche questa idea di intercultura e di scambio formativo ha suscitato in questi ultimi tempi una serie di infinite e contrapposte posizioni polemiche?

Non dovevamo stemperare i fronti? L'era della globalizzazione non doveva essere quella della cittadinanza europea senza barriere? Cosa si deve pensare?

Cosa ci suggeriscono i vari intellettuali di questa terra a partire da Rumiz per passare da Magris e per approdare al grande maestro Pahor, che soluzioni suggeriscono?

Ci sono soluzioni?

Se prendo ad esempio tre bambini e racconto loro le storie diverse e contrapposte dei loro nonni, cosa ottengo?

Ci sono delle strategie perché queste diverse memorie possano essere tenute insieme?

È servito a qualcosa ad esempio l'incontro avvenuto a Trieste nel ’98 tra Gianfranco Fini e Luciano Violante? Non ha forse solo inasprito di più gli animi con il loro tentativo malriuscito di pareggiare i conti tra i lager e le foibe?

E se invece taccio, se non dico nulla, sono sicuro che il passato non filtri tra gli interstizi del presente e non si faccia sentire nella piccola dimensione del quotidiano con ancora più acredine?

Quella stessa acredine che portano in seno tutte le faccende irrisolte?

Il senso profondo della propria cittadinanza
 

E se i bambini continueranno a sentire questo passato così inimicante, chi è che dovrà aiutarli a fare una elaborazione? C'è un progetto?

O stiamo lasciando questo lavoro così delicato all'inventiva personale e alla buona volontà di qualche motivato educatore?

Stiamo dando agli insegnanti della scuola gli strumenti per maneggiare una materia così difficile e particolare?

Il dubbio che ho è che si finisca in verità per delegare il processo di rielaborazione di un passato così duro ai meccanismi anestetizzanti della società dei consumi. Che si lasci che avvenga una trasformazione de cittadini dotati di storia e di memoria in con stimatori senza altra identità, che si aspetti che i bambini vengano uniti dallo stesso morso a panini di mc donald, o dallo sguardo perso sullo stesso schermo televisivo che ottunde il senso profondo della propria cittadinanza.

Io per ora di certezze non ho. So solo che alla foiba di Basovizza mio padre non mi ci ha voluto portare più. Perché noi non siamo camiciati di nero, non siamo camiciati di rosso.

E per quelle cose, dice lui, non esistono ancora abiti adatti e quindi è meglio tenere i nostri vestiti addosso e starcene a casa.

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