Morire cercando la libertà in fuga dalla Jugoslavia comunista del 1956

Quando si parla delle efferatezze del terrore titino, uno degli aspetti più crudeli riguarda il fatto che si siano consumate in massima parte a guerra finita.

Già la prima ondata di stragi in Carso, Istria e Dalmazia avvenne dopo l’8 settembre 1943, allorchè l’Italia aveva notificato la firma dell’armistizio “corto” di Cassibile, accettando perciò la resa incondizionata richiesta dagli Alleati nei mesi precedenti e definita nei dettagli con il successivo armistizio “lungo”. Lo Stato italiano, in cui la dittatura di Mussolini era già crollata nelle convulse giornate successive alla seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 24 luglio, era stato debellato, dal punto di vista del diritto internazionale aveva perso soggettività e sovranità, mentre sul campo la fuga del Re e del capo del governo Badoglio da Roma a Brindisi aveva creato confusione e sbandamento nelle istituzioni, nelle forze dell’ordine e nelle truppe. Fu facile per i partigiani jugoslavi scatenarsi fino a inizio ottobre nelle province del confine orientale italiano, dichiarando unilateralmente l’annessione dell’Istria alla futura Jugoslavia comunista.

Altrettanto fecero a guerra finita, allorché per Quaranta giorni infierirono non solo sugli ex fascisti, ma anche contro chiunque si opponesse all’espansionismo jugoslavo nei confronti della Venezia Giulia e di Fiume (Zara era stata già conquistata) senza venire ostacolati dagli anglo-americani, i quali volevano evitare il ripetersi di una situazione come quella ellenica, in cui dopo la cacciata dei tedeschi le truppe britanniche si erano trovate in contrapposizione con le forze della resistenza greca di matrice comunista.

Quando il 12 giugno 1945 Trieste, Gorizia e Pola passarono sotto il controllo del Governo Militare Alleato, mentre il resto del territorio restò sotto occupazione militare jugoslava, da una parte cessarono le deportazioni, i processi farsa e gli infoibamenti, dall’altra proseguirono in maniera meno appariscente. La repressione violenta dei manifestanti italiani a Capodistria, l’eliminazione del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Istria ed il martirio in odium fidei del Beato don Bonifacio dimostrano che nella Zona B definita dalla Linea Morgan era in corso un processo di assimilazione alle strutture del regime jugoslavo che comportava l’annientamento degli oppositori o presunti tali, peraltro non solo italiani.

La strage di Vergarolla del 18 agosto 1946 fu la prova che gli emissari jugoslavi potevano colpire anche nella Zona A sotto controllo anglo-americano, laddove il Trattato di Pace del 10 febbraio 1947 definì il nuovo confine italo-jugoslavo lasciando in sospeso la questione di Trieste ed istituì il regime delle opzioni per i residenti nei territori italiani che erano stati ceduti alla Jugoslavia. Mentre la diplomazia internazionale si arrovellava sulle sorti del Territorio Libero di Trieste, l’esodo giuliano-dalmata viveva una nuova fase.

A conflitto in corso Zara martoriata dai bombardamenti si era già svuotata, a guerra finita quasi 40.000 fiumani abbandonarono il capoluogo del Carnaro, nei primi mesi del 1947 giornali e cinegiornali poterono documentare l’esodo da Pola e gli angoscianti viaggi della motonave Toscana, dopodiché gli istriani, fiumani e dalmati cominciarono ad esercitare l’opzione per la cittadinanza italiana, che comportava l’abbandono della propria terra. Il Trattato di Pace garantiva altresì il rispetto dei diritti di proprietà, ma fu disatteso dal regime comunista di Belgrado che procedette a confiscare e nazionalizzare: il governo di Roma non protestò, limitandosi a chiedere che il valore di questi beni venisse detratto dalla somma che doveva versare alla Jugoslavia come riparazioni di guerra, facendosi quindi carico nei confronti dei legittimi proprietari del loro risarcimento. Tale indennizzo non è stato ancora erogato in misura adeguata.

Inizialmente la dirigenza jugoslava guardò con favore agli italiani che se ne andavano, poiché si allontanavano possibili quinte colonne residenti vicino al confine in caso di guerra con le potenze occidentali, cominciò invece ad opporre resistenze burocratiche allorchè la fiumana dei profughi andò a coinvolgere operai dei cantieri di Pola e di Fiume, i quali avevano visto il vero volto della dittatura comunista, intere categorie professionali che lasciavano prive delle loro competenze intere province, nonché sloveni e croati contrari al regime. A intere famiglie venne proibita la partenza poiché le autorità ritenevano che i loro cognomi fossero slavi ma italianizzati dal  fascismo, ad altre fu concesso solamente il diritto di opzione ad un genitore e non al resto dei suoi congiunti o viceversa, finché anche questa via legale per abbandonare la Jugoslavia si chiuse nel corso degli anni Cinquanta.

Nell’estate 1948 il maresciallo Josip Broz Tito in aperta contrapposizione con Stalin era uscito dal Cominform, l’organizzazione di coordinamento dei partiti e comunisti, ponendosi di lì a poco tra i leader del Movimento dei Non Allineati. Aveva poi firmato accordi militari difensivi con la Grecia e la Turchia che facevano parte della Nato, ma una volta morto il dittatore georgiano si era riavvicinato all’Unione Sovietica approfittando del processo di destalinizzazione avviato da Nikita Krusciov. Nel 1954 il memorandum di Londra aveva sostanzialmente risolto la questione di Trieste, affidando l’amministrazione civile della Zona A all’Italia e della Zona B alla Jugoslavia. L’ondivaga politica estera di Tito aveva reso la Repubblica Federativa un interlocutore privilegiato delle potenze occidentali che giammai denunciarono le violenze del suo regime ed il progetto di economia politica impostato sull’autogestione aveva mostrato all’opinione pubblica una via jugoslava al socialismo. Tuttavia il clima di terrore proseguiva e la comunità italiana era confinata in una sorta di riserva indiana, esibita come dimostrazione della clemenza del regime nei confronti delle minoranze, ma di fatto inquadrata nell’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume, vera e propria emanazione del partito comunista jugoslavo.

Succedeva così che qualcuno cercasse di fuggire clandestinamente ed il mare Adriatico rappresentava un’invitante via di fuga, anche se ben presidiata dalle motovedette jugoslave, che spesso sparavano anche ai pescherecci italiani che si avvicinavano troppo alle acque territoriali. Il 10 maggio 1956 il vecchio pescatore lussignano Giovanni Knesich mise la propria barchetta a disposizione di tre giovani che volevano abbandonare l’isola quarnerina e raggiungere la madre patria sull’altra sponda dell’Adriatico: Mario Fillinich, Giovanni Zorovich e Giovanni Carcich. I nomi di questi nostri quattro connazionali adesso si trovano su una lapide eretta nel 2001 nel cimitero di Lussino che ricorda come quella notte siano stati “barbaramente uccisi e fatti segretamente sparire nelle acque di Lischi”. “I parenti e tutti i lussignani non più residenti a Lussino” avevano eretto la lapide, nel cordoglio si sarebbero poi associati “i lussignani rimasti”, ma c’era ancora timore a indicare nelle forze del regime comunista di Tito gli esecutori del quadruplice omicidio e specificare che “i lussignani non più residenti” erano stati profughi in fuga dalla dittatura.

Ricordiamo oggi questi morti nell’anniversario della loro scomparsa, pure a beneficio di chi ancora non accetta di applicare anche a Tito l’equiparazione che il Parlamento Europeo ha stabilito tra crimini nazisti e comunisti.

Lorenzo Salimbeni

 

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