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Messaggero Veneto – 040208 – Quei 100mila esuli in Via Pradamano

Dal 1947 al 1960 il complesso ex Gil di via Pradamano ha ospitato il più grosso Centro smistamento profughi d’Italia: vi sono passati più di centomila giuliani, istriani e dalmati (ma anche balcanici in fuga dal comunismo jugoslavo) che qui hanno trovato alloggio e solidarietà prima di proseguire verso altre mete, nazionali ed estere.
Sessant’anni dopo un professore dello Stringher, Elio Varutti, che ha abitato a lungo nel borgo, ha rintracciato molti superstiti e ricostruito le vicende, il clima, i personaggi di quegli anni difficili dell’immediato dopoguerra. E il ruolo che ha avuto Udine – prima importante città italiana (Trieste fino al ’54 era occupata dagli Alleati) al di qua del confine – nell’accoglienza a tante famiglie di esuli costretti, per poter restare italiani, a lasciare le loro terre e i loro beni.
Ne è nato un ricco e documentato volume, edito dal comitato udinese dell’Associazione Venezia Giulia e Dalmazia, che sarà presentato venerdì, alle 18, in sala Aiace, nell’ambito della Giornata nazionale del ricordo, appunto, delle vittime delle foibe e dell’esodo degli istriani, fiumani e dalmati, in programma domenica.
Elio Varutti, classe 1953, al tempo del Campo profughi di via Pradamano era un bambino di pochi anni. Assieme al fratello Giovanni, del 1946, giocava con i coetanei nelle strade del borgo, come via delle Fornaci, dove i ragazzi abitavano assieme ai genitori e a tre sorelle.
Papà Giacomo, impiegato all’Intendenza di finanza allora in via Mantica, era originario di San Vito di Fagagna; la mamma Lucia Anderloni, invece, apparteneva a una famiglia veneziana: suo padre Luigi, appassionato fotografo, aveva avviato – col fratello Arnaldo – un commercio di vini in viale Palmanova, mentre suo nonno Attilio Anelli Monti era un rinomato mosaicista e, soprattutto, fotografo (lo stesso Varutti, nel 1994, ha dedicato ai due avi artisti dell’obiettivo uno dei quaderni fotografici della collana Ribis diretta da Gianfranco Ellero).
Dopo le medie, Elio Varutti ha frequentato il liceo scientifico Marinelli e nel 1977 si è laureato in sociologia a Trento, perfezionandosi in storia all’Università di Udine nel 1998. Ha quindi cominciato a insegnare e dall’83 è professore di ruolo (economia turistica) all’istituto Stringher. Dagli anni ’80 si è impegnato in ricerche storiche assieme a docenti universitari (con Bernardo Cattarinussi sull’alcolismo, con Erminio Polo sull’epidemia di colera del 1855). Nel 2001 ha scritto un saggio su “Il Friuli nel periodo 1950-2000 – Appunti di economia e sociologia urbano-rurale”.
Era un primo passo per affrontare il periodo, appunto gli anni ’50-’60, del Campo profughi di via Pradamano. Ai problemi degli esuli dalle terre adriatiche lo aveva, in un certo modo, avvicinato il matrimonio, nel ’97, con Daniela Conighi, collega dello Stringher, dove insegna matematica. Daniela è nata a Forlì, da padre fiumano e madre di Pola: il padre Enrico, mancato nel 1995, era figlio di Carlo Conighi, legionario con D’Annunzio a Fiume e primo presidente del comitato udinese dell’Anvgd nel 1948.
Si può dire, quindi, che Varutti da allora ha un po’ “sposato” anche la causa degli esuli. Ma uno dei motivi più curiosi che hanno indotto il ricercatore ad affrontare un lavoro che lo ha impegnato per quasi cinque anni, è stato un ricordo particolare della sua infanzia. Cioè la frase, piuttosto antipatica, che alcuni genitori, quando si arrabbiavano, rivolgevano ai figli: «Ti faccio portar via dai profughi!» (Frase peraltro già sentita nel 1917-’18 in varie città, Firenze, Lucca, Roma, che avevano accolto i friulani dopo Caporetto!). Ebbe però subito modo di accertarsi che le accoglienze degli udinesi a quegli sventurati «stranieri in patria» furono più che buone.
Certo il Campo, gestito dal Ministero degli Interni, non era un albergo a cinque stelle: grandi camerate divise da separé con coperte, letti a castello, la cucina affidata alle volonterose cuoche istriane, le famiglie si arrangiavano come potevano. Ma c’erano anche un medico, l’infermeria, la messa la domenica (vi partecipava anche la gente del quartiere, dato che la chiesa di San Pio X non esisteva ancora). E nel 1957 aveva fatto la sua comparsa anche il primo televisore! Un’esperienza, insomma, che non ha lasciato brutti ricordi, anzi: come ha detto un’anziana ex ospite a Varutti, «Gavemo passà ben!».
«Gli anni del dopoguerra – spiega il professore – erano duri per tutti. Fino all’estate ’49 c’era ancora la tessera per il pane e la pasta. Le spese erano molto oculate: come ha scritto Renzo Valente, “a Pasqua si comperavano le scarpe e ogni cinque Natali il cappotto!”. E non pochi udinesi, rimasti senza casa a causa dei bombardamenti angloamericani, come gli esuli dovevano accontentarsi di alloggi precari. Andavano bene anche le baracche di lamiera lasciate dagli inglesi nel cosiddetto Villaggio metallico di Paderno (dove oggi ci sono le roulottes degli zingari). E qualche famiglia – lo confermano le incredibili foto di Tino da Udine, 1956 – abitava persino sotto gli archi del cavalcavia Simonetti! Poi sono arrivate le case Fanfani e quelle, appunto per i profughi, del Villaggio giuliano di via Cormòr Alto».
L’idea della ricerca è partita dalla Circoscrizione Udine sud (nell’ambito della quale Varutti, dal 2003, fa parte della Commissione cultura). Con le sue interviste il professore ha scandagliato anche l’ambiente dei non profughi: tra gli altri ha sentito l’allora impiegato del centro, Leonardo Cesarotto; la propria ex insegnante di catechismo, Adelia Mariuz vedova Larice; il quasi centenario tipografo di via Pradamano, Torribio Marioni; lo scrittore Lino Leggio, che abitò in via delle Fornaci dove ambientò i suoi racconti sulle bande giovanili degli anni ’50. Poi ha dato la parola ai protagonisti dell’esodo, o ai loro figli.
«Alcuni particolari mi hanno veramente colpito: morti atroci nelle foibe, fughe rocambolesche (con barchette a remi o persino a nuoto!) dalle coste istriane, lettere di famigliari scomparsi devotamente conservate dagli eredi. Come quell’ultimo biglietto per la moglie scritto col lapis da Francesco Mattini di Pinguente e consegnato a un bambino che riuscì a eludere le guardie titine».
Il libro di Elio Varutti ha una seconda parte, che ne è il naturale completamento: la storia dei sodalizi degli esuli a Udine. Dalla primissima Associazione Venezia Giulia e Zara alla successiva Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, nata a Udine nel 1848. Primi presidenti il già citato Conighi e il commerciante Augusto Gecele, che aveva un negozio di elettrodomestici in via Aquileia. In quegli anni l’Anvgd ebbe un ruolo importante non solo sul piano assistenziale e ricreativo per i profughi, ma anche come principale interlucutrice con la Prefettura (anche per i controlli in via Pradamano su possibili infiltrati dell’Ozna, la polizia segreta jugoslava).
Nel 1972, dopo il superamento di una crisi definita «generazionale», al vertice dell’Anvgd arrivò l’ingegner Silvio Cattalini, già profugo (diciottenne) da Zara, che ha retto e regge tuttora saldamente il sodalizio. Con Cattalini (da ricordare anche suo cugino, il giornalista Antonio, presidente regionale dell’associazione), ci fu un rilancio della “presenza” dei giuliano-dalmati nella città che li aveva accolti in anni difficili.
Iniziative come presentazione di libri, mostre d’arte, rappresentazioni teatrali e, soprattutto, viaggi d’istruzione nelle terre adriatiche di cultura italiana hanno fatto dell’Anvgd di Udine uno dei sodalizi più attivi della città. Tra i fiori all’occhiello della lunga gestione Cattalini, la ripresa dei contatti con i “rimasti” oltreconfine e le loro associazioni; il ritorno dei primissimi turisti (Pasqua 1996) a Dubrovnik-Ragusa ancora segnata dalle ferite della guerra con la Serbia; la scoperta di nuove mete affascinanti come (estate 2006) il neoindipendente Montenegro.
E adesso c’è il libro-documento di Elio Varutti che è, sì, la storia degli esuli, ma è anche una «tranche de vie» della nostra città e della sua gente che sessant’anni fa ha saputo essere accogliente e solidale verso gli sfortunati fratelli d’oltre Adriatico. Gran parte dei quali hanno poi raggiunto altre città d’Italia e d’Europa o l’Australia e gli Stati Uniti; ma non pochi sono rimasti tra noi, ricoprendo anche importanti ruoli nell’amministrazione civile e militare: convinti, e apprezzati, friulani d’adozione come lo sono oggi i loro figli e nipoti.

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