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”Mangiar Memoria” e assaporare il nostro essere (Voce del Popolo 31 dic)

«Mangiar Memoria» e assaporare il nostro essere
Un volume che documenta un aspetto importante della vita in Istria

L’identità di ogni individuo è il risultato di molteplici aspetti. Il territorio in cui si è nati e vissuti modella inevitabilmente il modo di essere, vuoi per la lingua parlata (e relativi dialetti), vuoi per gli usi e costumi, ecc. Un elemento che a torto viene accantonato, o meglio non risulta immediato, è quello relativo alla cucina ossia ai piatti della tradizione. Il cibo infatti denota fortemente l’appartenenza a una comunità e al contempo racchiude tasselli di storia, legati all’economia e alle risorse disponibili in una società, ai rapporti della stessa con il mondo esterno nonché alle contaminazioni con le altre culture.
I sapori presenti in un piatto o in un dolce rimandano esattamente a quanto sopra accennato; pensiamo solo alle bontà dolciarie fatte proprie nel periodo asburgico e provenienti dalle varie parti di quell’impero, che attecchirono in particolar modo in città come Trieste o Fiume. Pertanto, una pietanza non è esclusivamente un pasto da consumare, cosa che è invece il moderno cibo veloce, il fast food, che, in quando figlio della globalizzazione, è privo di gusto, o meglio il suo sapore non conosce differenziazioni, nonostante lo si mangi a Milano, a Singapore, a New York o a Londra. Quel tipo di prodotto allora non ha una sua identità. Esattamente il contrario di quanto possiamo affermare per i piatti tradizionali, i quali si identificano con il territorio e la cui rivalutazione – in quanto dimenticati dall’incalzare del progresso e della modernità – sta riscuotendo via via un maggiore successo.

Salvaguardia e valorizzazione

Quindi ciò che mangiamo rappresenta a tutti gli effetti una parte di noi e della nostra storia. Un piatto parla infatti del nostro essere e ci indica chi siamo. Questi ed altri aspetti vengono proposti nel volume “Mangiar Memoria. Cibi tradizionali e trasmissione della cultura dentro e fuori Voce Giuliana”, curato da Chiara Vigini ed edito dall’Associazione delle Comunità Istriane di Trieste (2007, pagine 208). L’autrice, docente di storia nella città di San Giusto, appassionata a tutto ciò che concerne il passato e la cultura in senso lato dell’Istria, collabora con la stampa dell’esodo, e, come si legge sulla terza di copertina, è “figlia di genitori che devono alla profuganza il loro incontro, crede fermamente nell’importanza di trasmettere alle nuove generazioni la conoscenza e l’amore per la proprie radici”. La “Voce Giuliana” nella sua quarantennale esistenza ha pubblicato un notevole numero di ricette delle varie località adriatiche, e da questa constatazione si è ritenuto utile raccoglierle e riproporle in un agile volume, poiché, come avverte Lorenzo Rovis, presidente della già ricordata Associazione delle Comunità Istriane, “l’identità di un popolo si basa su vari parametri, tra i quali le tradizioni e la sua civiltà della tavola sono tra i più qualificanti. La cucina acquista così dignità di patrimonio culturale di una terra, quale corollario della storia, dello stile di vita, dell’organizzazione sociale”.
Lo strappo avvenuto con l’esodo oltre a determinare la scomparsa quasi completa della componente italiana, aveva provocato un impoverimento culturale in senso lato sia tra i profughi sia tra coloro che erano rimasti nella terra dei loro avi. La salvaguardia, la valorizzazione e la volontà di trasmettere tutto ciò che caratterizzava l’essere di quegli individui, divenne un imperativo da perseguire. E se le generazioni passate hanno saputo tramandare e mai hanno dimenticato le proprie radici – che si manifestano esplicitamente anche in cucina –, attualmente sussiste la paura, non certo infondata, che il bagaglio di valori, usi e tradizioni scompaia per sempre, per non aver saputo passare il testimone ai più giovani. Proprio quest’ultimi, in quanto nati e cresciuti lontani dalla terra delle proprie famiglie e quindi inseriti in un contesto diverso che li ha forgiati, dovrebbero avere la sensibilità di non dimenticare, poiché la perdita della memoria significa la cancellazione dei caratteri di una presenza autoctona, già pesantemente colpita dalle avversità della storia recente. E tale discorso vale anche per i giovani della nostra comunità nazionale, perché, proprio per il fatto di vivere nei territori in cui la componente istro-veneta è di casa, ha l’obbligo morale di alimentare quella fiamma che non si è mai spenta – nemmeno nei periodi più plumbei – grazie ai nostri “vecchi”. Ed i lineamenti del nostro essere passano anche attraverso la tavola con i sapori e gli odori dei piatti caratteristici.

Semplicità e stagionalità

Proprio per siffatte ragioni “uno degli scopi di questa pubblicazione – scrive Chiara Vigini – è documentare un aspetto importante della vita in Istria prima del grande esodo. Il cibo e le tradizioni ad esso legate sono infatti lo specchio di una civiltà e sarebbe imperdonabile, per questa generazione, perderne la memoria con la scusa del tempo che scorre in fretta e che ci fa correre a nostra volta sempre più” (p. 5). La cucina istriana tradizionale propone essenzialmente pietanze semplici i cui prodotti utilizzati provengono dal territorio ed è soprattutto legata alla stagionalità degli stessi, aspetto decisamente importante, mentre oggi siamo abituati a mangiare quasi di tutto a prescindere dai mesi dell’anno. I ritmi di vita, contraddistinti sempre più dalla frenesia, dalla velocità, e, purtroppo, anche dallo stress, appaiono diametralmente opposti a quelli dei nostri nonni, che, specie le famiglie contadine non avevano invariato per secoli, proprio perché legate alla terra, ai cicli della natura, ai ritmi segnati dal sole e ai prodotti offerti dalla terra. Al contempo erano però anche degli abitudinari. L’autrice annota: “in passato, nei nostri paesi non si usava una gran varietà di cibo: la vita scorreva lenta e uguale, giorno dopo giorno, come i punti su una maglia fatta ai ferri. (…) La giornata era scandita dalle pause per reintegrare le energie perdute col duro lavoro dei campi, e i cibi che venivano distribuiti variavano solo col variare dell’ora, ma rimanevano pressoché uguali ogni giorno. Alle sei, di primo mattino, veniva distribuito il caffè d’orzo. Alle nove e mezza c’era un primo pasto con polenta e sugo, oppure gnocchi. Il sugo arrossato con conserva era fatto con coste o spalletta di maiale, oppure si serviva la salsiccia. Alle volte, si usavano le 'strazade' (tagliatelle) al posto degli gnocchi e della polenta. Nella zona di Montona e anche altrove si usavano i 'fusi', che oggi si servono in tutti gli agriturismi come piatto istriano tipico, ma un tempo non era così dappertutto: in vaste zone dell’Istria i fusi neanche li conoscevano! Verso le due del pomeriggio ecco il pranzo vero e proprio: minestrone con cotica e pancetta o spalletta. La spalletta, molto usata, era una specie di prosciutto crudo che però non si conservava a lungo, ecco il motivo per cui si combinava con altri cibi. La merenda del pomeriggio, verso le cinque, dopo il grande caldo, prevedeva formaggio e pane e vino. Alla sera, invece, alla fine della giornata, per cena, si cuocevano in "farsora" (in tegame, nda) grandi frittate, accompagnate da insalate e verdure fresche” (pp. 7-8). Il volume riporta le ricette e le modalità di preparazione delle minestre, il cibo istriano per antonomasia, delle carni, delle frittate, degli gnocchi, del pesce, in primo luogo il brodetto, il baccalà ed il "savor", dei crostacei e, naturalmente, dei dolci, tra i quali ricordiamo i "crostoli", lo "strucolo de pomi", i "bussolai", le "pinze" e le "fritole", nonché le marmellate. Il volume è corredato dalle foto di Gianfranco Abrami i cui scatti arricchiscono ulteriormente i testi e le ricette proposte. Buon appetito!

Kristjan Knez

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