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Lo Stato si ricorda della Antonelli, diva in disgrazia (Il Piccolo 04 giu)

di PAOLO LUGHI

Viva la legge Bacchelli e grazie di cuore a quanti (Lino Banfi in testa, che ieri ne ha chiesto l’applicazione per lei), potranno aiutare Laura Antonelli, l’indimenticabile star di “Malizia”, nata a Pola nel 1941 (Laura Antonaz il vero nome), dal 1991 affetta da una grave forma di depressione e fino a ieri abbandonata da tutti.

Solo chi era adolescente nei primi anni ’70 può capire pienamente il culto per questa interprete solare, duttile e sensibile, bellissima, con una particolare ritrosia naturale che sembra propria di queste parti e che era anche della conterranea Alida Valli. Ma all’apice della sua carriera, la Antonelli è stata l’unica vera Diva italiana, con un’assenza di rivali che prima e dopo non si è mai verificata in modo così deciso, nell’Olimpo ricco e variegato delle bellezze cinematografiche nostrane. Volto da ragazzina, corpo anni ’50, è stata un monumento della commedia all’italiana erotica, il massimo oggetto del desiderio in Italia dalla rivoluzione sessuale fino all’arrivo sugli schermi di Ornella Muti (seconda metà anni ’70).

Adolescenza a Napoli dopo l’esodo istriano, insegnante di educazione fisica, Laura avrebbe potuto raggiungere la popolarità già nel 1969, quando girò una storia al limite dell’hard-core, “Venere in pelliccia”. Ma il film, bloccato dalla censura, sarebbe uscito con il titolo “Le malizie di Venere” solo sei anni dopo, sull’onda dei trionfi successivi (il primo, “Il merlo maschio” del ’71). La consacrazione con la regia di Salvatore Samperi nello stracult “Malizia” (1973), pellicola prototipo di decine di commedie a venire, che apriva un filone più libero sul fronte del sesso di quelli precedenti (mondo-di-notte, decamerotico). E il sesso era rappresentato da lei, con le sue forme in primo piano, gli occhi grandi, tranquilli e il viso da ingenua, l’aria così italiana insieme dolce e carnale, così “raggiungibile” con le calze e i capelli mai a posto. Con lei si cessava di sognare l’impossibile, ci si accorgeva della ragazza della porta accanto, con l’abituccio e le ciabatte.

Quella scena con lei sulla scala, con l’espressione inconsapevole del movimento di gonna, rimase stampato nell’immaginario erotico del maschio italiano. Fu la prima delle dive “che si spogliavano”. Portava molta biancheria intima, la portava bene, se la toglieva anche meglio.

Solo dopo di lei arrivarono la Muti e la Fenech, Gloria Guida ed Eleonora Giorgi. Per lei, simbolo sexy per oltre un decennio, 42 pellicole in tutto (anche con Comencini, Risi e Visconti), fino al ’91, quando comincia la sua disavventura giudiziaria, condannata a tre anni e mezzo per detenzione di stupefacenti, ma assolta in appello nel 2000.

Poi, entra ed esce dagli ospedali fino all’appello di ieri dell’amico Banfi. Lo scrittore Giuseppe Pontiggia scrisse, a proposito del mito della Antonelli, che l’attrice basava il suo fascino sulla combinazione di aspetti inconciliabili, richiamando la figura retorica (prediletta dal Barocco) dell’ossimoro, attingendo per lei a piene mani alla fusione dei contrari: «Impudiciza disarmata, malizia innocente, limpidezza impura, la sua è una sensualità che si svela come passività attiva o come passiva attività. L’accostamento di questi aspetti è comunque più eccitante che ciascuno di loro preso separatamente. L’identità viene da lei serenamente elusa con lo scambio delle parti: la bambina che diventa madre e viceversa, l’artificio che diventa candore e il candore artificio».

Sull’onda del clamore sollevato da Banfi, la Antonelli ha chiesto soltanto di essere dimenticata. Sarà impossibile.

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