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L’epopea dei Brunner nell’Europa divisa (Il Piccolo 03 gen)

di PIETRO SPIRITO

Helen Brunner srotola sul tavolo dello studio l’albero genealogico della sua famiglia. Aperto, il cartiglio misura due metri e mezzo, e conta oltre 700 nomi in un intreccio di generazioni che dura da più di trecento anni. «I discendenti dei Brunner si incontrano a cadenza quasi regolare – spiega Helen -, grandi raduni di famiglia con oltre un centinaio di partecipanti in arrivo da tutto il mondo. Nel 2000 ci siamo visti a Trieste, una riunione organizzata assieme ai miei cugini Elisabetta Brunner Dalla Palma e Gianni Stavro Santarosa, discendente di Regina Segrè e Rodolfo Brunner. Nel 2003 ci siamo visti a Roma, nel 2007 a Malaga. Ogni tanto salta fuori un nuovo parente, ogni volta è come un flash che illumina una porzione del nostro passato».

Poche grandi famiglie come quella dei Brunner possono vantare un reticolo tanto fitto e così radicato nella storia di Trieste. È una genealogia robusta, tipica della cultura ebraica, anzi delle culture delle diaspore, obbedienti all’obbligo, come ha osservato il critico Cristina Benussi, di «rappresentarsi in una dinamica continua tra storia di sé e dell’altro e dunque volte a custodire e ad enfatizzare la propria memoria». Nel 1986, poco prima di morire all’età di 89 anni, la nonna di Helen Brunner, Hilda Brunner, organizzò una festa cui partecipò un consistente numero di rappresentanti dei vari rami della famiglia, e a ciascuno consegnò un libro in cui aveva riassunto trecento anni di storia familiare. «Quel libro – spiega Helen – è diventato per tutti noi da un lato una sorta di collante, una matrice comune per svariate persone nei diversi continenti, dall’altro una specie di motore di ricerca dai tanti possibili sviluppi».

La storia dei Brunner comincia a Hohenems, cittadina austriaca nel Land Vorarlberg, appartenente al distretto di Dornbirn, al confine con la Svizzera. Anzi no, la storia inizia un po’ prima, nel paesino di Sulz. O meglio, ad Aulendorf, ora in Germania. Laggiù, nel XVII secolo, troviamo un certo Wolf, che poi si trasferisce a Sulz. Qui Wolf sopravvive e resiste al pogrom del 1688, ma suo figlio, Jakob Wolf, alla fine sarà espulso da Sulz, nel 1744, trovando rifugio a Hohenems, dove i signori del luogo, indipendenti dall’impero, offrono asilo alle famiglie ebraiche costrette ad abbandonare i loro paesi d’origine. Il patronimico Wolf significa lupo, ma quando nel 1813 viene imposto agli ebrei di avere un cognome, la tradizione familiare narra che, non sapendo quale cognome prendere e avendo un pozzo davanti casa, i fratelli Henle (Heinrich) e Abraham (Arnold) Wolf scelgono il cognome Brunner, cioè ”quelli del pozzo”.

Grazie alla protezione dei signori di Hohenems le diverse famiglie ebraiche del villaggio – i cui discendenti ancora oggi si riuniscono periodicamente nella cittadina in memoria dei loro avi – per un periodo vivono in pace e prosperità, praticando il commercio dei prodotti della propria terra, soprattutto tessuti, circostanza rara per gli ebrei nell’Europa di allora. Finché, quando la casata dei signori di Hohenems si estingue, il borgo passa automaticamente sotto la giurisdizione dell’Impero, e agli abitanti del posto viene vietato di portare i loro commerci fuori dai confini del territorio. A quel punto molte famiglie decidono di aggirare l’ostacolo trasferendo parte dei componenti e delle loro attività in luoghi anche molto lontani, lasciando a Hohenems quello che si potrebbe definire il centro direzionale. Così fanno i Brunner, che commerciano in tessuti: un fratello resta nel borgo mantenendo il controllo dell’azienda, un altro acquista la merce a San Gallo, in Svizzera, un terzo la fa lavorare in Inghilterra e un quarto la smercia a Trieste, che in quegli anni è uno dei centri propulsivi per l’economia dell’Impero.

Il primo rappresentante della famiglia Brunner a mettere piede a Trieste intorno agli anni Trenta dell’Ottocento è Jakob, capo della Comunità e borgomastro di Hohenems. Nato nel 1811, Jakob a Trieste sposa Hannchen Brunner, una cugina appartenente anche lei al ceppo di Hohenems. Abile e intraprendente, Jakob capisce che Trieste offre straordinarie possibilità, e nel 1830, dopo un lungo e difficile apprendistato nella famiglia Haymann, chiede e ottiene dal padre l’appoggio per impiantare in città una propria industria tessile. Intanto il fratello Markus ne ha fondata un’altra a San Gallo, dove istituisce anche una delle prime banche svizzere. Nel giro di dieci anni la ditta Jakob Brunner di Trieste va a gonfie vele, tanto che Jakob viene raggiunto dal fratello più giovane, Hirsch, detto Carlo. Dopo un avvio assieme al fratello, Carlo si mette in proprio, e nel 1855 sposa Caroline Rosenthal – anche lei originaria di Hohenems -, che ha due sorelle, una delle quali sposa David S. Bles e si trasferisce a Manchester.

Siamo nella seconda metà dell’Ottocento, e i Brunner sono ormai inseriti a pieno titolo nell’élite economica triestina fedelissima all’Austria. In particolare Jakob e i suoi figli – Massimiliano Jr., Wihelm, Eugen, Adolfo – e Carlo con i suoi – Rodolfo e Filippo -, sono presenti in tutti gli enti e le associazioni della ”società che conta”, dall’elenco dei possessori debitoriali del prestito teatrale, ai direttivi delle più importanti realtà economiche e finanziare della città, alle società sportive e musicali, oltre che nelle principali associazioni benefiche. Alla vigilia della prima guerra mondiale da transfughi di un paesino dell’Austria i Brunner sono diventati una delle casate più potenti dell’emporio austro-ungarico. Lo schema del rafforzamento economico passa – come per tutte le grandi dinastie – anche attraverso le alleanze economiche tra famiglie, unioni e matrimoni che in nome dell’interesse comune e del profitto possono superare, quando ci sono, inconciliabili divergenze politiche.

Uno dei figli di Carlo, Rodolfo, ha sposato Regina Segrè, sorella del ricco imprenditore Salvatore Segrè, marito della baronessa Anna Sartorio nonché fervente irredentista e futuro senatore del Regno d’Italia. Rodolfo invece è un fedelissimo dell’Austria, anzi è anche finanziatore delle sue forze armate, ma le discussioni politiche fra cognati si svolgono sempre in un clima civile e senza mai nessun rancore. Allo scoppio della guerra, però, il figlio di Rodolfo, Guido (gli altri sono Ada, Lea e Leone ”Leo”), giovane bello e irrequieto che negli anni ha assorbito le idee politiche dello zio Salvatore, si ribella alla famiglia e all’establishment. Inviato a combattere nei Carpazi sotto le insegne imperiali, nel marzo del 1915 Guido Brunner diserta, fugge a Venezia e si arruola come sottotenente di cavalleria nell’esercito italiano. Per Rodolfo è un colpo fortissimo. Invano manda la moglie e il fratello Filippo a Venezia per convincere il figlio a ripensarci. Guido parte per il fronte, ma viene catturato dagli austriaci e condannato a morte. La fucilazione sta per essere eseguita quando interviene l’imperatore in persona, che libera Guido e lo rimanda a casa, dalla benemerita famiglia Brunner. Rodolfo prende il figlio e lo porta lontano dai guai, nella tenuta di Forcoli, in Toscana. Qui cerca di convincerlo in ogni modo a dimenticare il tricolore, senza peraltro avere l’appoggio della moglie Regina, irredentista anche lei come il fratello Salvatore. Durante la notte Guido fugge dalla villa, torna nelle fila dell’esercito italiano e con il nome di battaglia di Mario Berti viene assegnato al 152° Reggimento fanteria Sassari. Morirà in azione a Monte Fior l’8 giugno 1916, guadagnandosi una medaglia d’oro e, in tempi successivi, l’intitolazione a Trieste di una via, di una scuola, di un ricreatorio e della caserma di Opicina sede oggi del Piemonte Cavalleria.

Distrutto dal dolore Rodolfo Brunner si rifugia nel suo possedimento di Cavenzano di Campolongo, nel Friuli austriaco, dove verrà presto fatto prigioniero dagli italiani, senza così nemmeno poter adempiere alla chiamata alle armi come ufficiale dell’esercito austriaco – all’età di 57 anni – cosa che avrebbe voluto fare per espiare la vergogna del figlio. Vorrà riparare l’onore offeso il cugino di Guido, Oscar Brunner, figlio di Filippo, che si arruolerà per combattere nelle armate imperiali.

Il dramma vissuto da Rodolfo Brunner e dalla sua famiglia non è l’unico a Trieste: la guerra, chiamando a drastiche scelte di campo, chiude un’epoca per l’élite triestina. Il primo dopoguerra segna per i Brunner un cambio generazionale. I figli di Massimiliano Jr. ed Helen Brunner, reggono le sorti dell’azienda tessile. Il primogenito Arminio sposerà Hilda, figlia di Filippo e Fanny Bles, sorella di Oscar. Nella prima metà degli anni Venti i Brunner hanno cinque fabbriche, sono leader nell’industria tessile e della lavorazione del cotone. Sono ancora potenti, frequentano la migliore società e mantengono solide amicizie con altre casate, come i Cosulich e i Tripcovich.

Ma nel 1929 gli affari cominciano ad andare male. Tra le difficoltà che incontrano come ex-austriacanti, i debiti accumulati da Arminio e, più tardi, le leggi razziali del ’38, lo scoppio della seconda guerra mondiale costringono tutta la famiglia Brunner a lasciare Trieste. Alcuni dei suoi componenti vanno a combattere, come Oscar, che si arruola con gli alleati. Con altri il destino sarà più crudele. Uno dei fratelli di Arminio, Egone, afflitto da problemi psichici e ricoverato al manicomio di San Giovanni, finirà vittima della retata nazista che nel ’44 lo porterà prima alla Risiera di San Sabba, poi a morire ad Auschwitz.

Terminata la guerra i Brunner tornano a Trieste. Delle loro aziende non è rimasto più nulla, ma la famiglia è ancora unita, e in vista. Leo Brunner, il figlio più piccolo di Rodolfo, sarà presidente della Triestina Calcio con la società in serie A.

E la storia non è finita. Oggi, alle riunioni periodiche in cui i vari rami delle discendenze dei Wolf di Sulz si incontrano di nuovo, si contano più di cento parenti, in arrivo da tutta Europa, dagli Stati Uniti, dall’Australia, da Israele e persino dalle Hawaii. «Oggigiorno – disse nel 1986 Hilda Brunner quando regalò il suo libro ai parenti riuniti – forse le grandi famiglie non esistono più. Ma io penso che la descrizione di questi trecento ultimi anni, attraverso le storie della nostra famiglia, avvicini un po’ tutti noi a un passato felice e travagliato, fatto di gioie e anche di sconfitte, ma sempre pieno di speranze che noi tutti, vecchi e giovani, Brunner e non più Brunner, proprio oggi non dovremmo dimenticare».

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