L’altra faccia di Caporetto: la battaglia d’arresto del Piave

Claudio Giraldi, dirigente del Comitato provinciale di Milano dell’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, esamina, sulla base di documenti reperiti negli archivi storici militari, gli accorgimenti che Cadorna seguì per arretrare la linea del fronte e consolidarlo su posizioni che potevano essere difese con maggiore efficacia. Ne risulta un giudizio storico “controcorrente” sull’operato di Cadorna ed un’esaltazione dell’entusiasmo e del valore mostrati dal nostro esercito.

L’ALTRA CAPORETTO
Caporetto, una visione più pragmatica

Caporetto è una delle pagine più discusse della storia nazionale italiana. L’evento è stato raccontato e studiato sotto il profilo militare, politico e sociale con una sterminata letteratura composta di saggi, libelli e memorie personali. Ma i toni sono sempre prevalentemente ideologici.

Si parla sempre di Caporetto come di una «disfatta» tanto che nel linguaggio comune, perfino all’estero, Caporetto è diventata il simbolo di tutte le sconfitte.

La storia dottrinale di Caporetto (la sconfitta) ha finito quindi per oscurare un’altra pagina di storia nazionale (l’orgoglio).

È giusto quindi continuare a parlare di Caporetto, fa parte della storia, ma non è giusto che la storia di Caporetto offuschi quello che successe in seguito.

Una parte decisiva del Paese reagì con un soprassalto di orgoglio e un forte desiderio di rivalsa. I veri protagonisti furono soprattutto i tanti eroi ignoti, che morirono senza clamore nel compimento del loro dovere.

Uomini che provenivano dai tanti diversi luoghi di cui è composta la penisola, si sacrificarono fino all’estremo sacrificio della vita, nella titanica impresa di fermare il nemico.

Un nemico che, motivato dai rapidi successi e spinto dalla necessità di arrivare alla vittoria definitiva, fece di tutto per impedire che l’esercito italiano si riorganizzasse.

L’uso enfatico del termine “disfatta” non è però corretto. Per Caporetto è più corretto parlare di una sconfitta nella quale furono coinvolte buona parte della 2ª Armata e il XII Corpo d’Armata della Zona Carnia.

Le altre Armate (1ª, 3ª e 4ª) tennero bene, e si deve a loro la vittoria nella successiva battaglia d’arresto sul Piave.

Il Piave dimenticato

L’enfasi dedicata a Caporetto, battaglia che durò due settimane, non è invece tributata alla battaglia di arresto sul Piave, che si protrasse per più di un mese e mezzo, nella quale 35 divisioni italiane, pur stanche e depresse dopo la ritirata, respinsero 55 divisioni austro tedesche lanciate dal recente successo e ben sostenute.

Si dimentica infatti che la vittoria sul Piave, la seconda parte della battaglia di Caporetto, salvò l’Italia e l’intera Intesa dalla capitolazione.

Se l’Italia fosse uscita di scena tutte le forze austro-tedesche si sarebbero riversate sul fronte occidentale offrendo un supporto enorme – e probabilmente decisivo – all’esercito tedesco.

Il merito del bollettino

Gli storici concordano sul fatto che l’esercito italiano si era già ripreso prima di arrivare al Piave, ma non spiegano il perché.

Fu la sferzata morale del contestatissimo bollettino di Cadorna, che da un lato accusò alcuni reparti di codardia (come effettivamente risultava dai verbali dei Carabinieri) e dall’altro diede piena fiducia e sprone al resto dell’esercito, a giocare un ruolo decisivo in quel frangente.

Le Caporetto degli altri

Vogliamo aprire una piccola parentesi per dimostrare come a volte siamo molto bravi a farci del male.

Raramente si parla delle “Caporetto degli altri”: e forse anche perché i paesi che le subirono ne hanno parlato molto meno senza l’enfasi riservata a Caporetto.

Come non ricordare disastri ben più gravi della ritirata di Caporetto; più gravi sia per perdita di territorio che per perdite di uomini, di mezzi militari e popolazione civile: ricordo la Battaglia di Gorlice – Tarnow, nella Polonia meridionale, nel maggio 1915, dove i russi fecero una ritirata di 380 chilometri, persero Varsavia e accusarono gravissime perdite di soldati e artiglierie; la pesante sconfitta subita dagli anglo – francesi da parte dell’esercito turco, nel marzo – agosto 1915, a Gallipoli nello Stretto dei Dardanelli; la disastrosa offensiva del generale francese Nivelle, sul fronte occidentale, nell’aprile del 1917, che fallì miseramente subendo 180.000 perdite fra morti e dispersi con ammutinamenti di intere divisioni; l’offensiva tedesca della Somme e delle Fiandre, nel marzo del 1918, che causò agli anglo – francesi la perdita di 330.000 soldati fra morti, dispersi e feriti e di 209.000 prigionieri e allo Chemin des Dames, nell’alta Francia, nel maggio del 1918, dove i tedeschi sfondarono il fronte e nel giro di una settimana penetrarono in profondità per oltre 100 chilometri.

Caporetto dunque non fu una sconfitta da record.

Cadorna colto di sorpresa?

Cadorna viene accusato di non aver saputo prevedere lo sfondamento di Caporetto nonostante le numerose avvisaglie. I documenti raccontano un’altra storia: dalle lettere al Re, al fatto che il generale, appena due settimane prima dell’attacco, era andato a ispezionare i lavori difensivi in corso sul Monte Grappa.

Lo conferma la testimonianza del colonnello Del Fabbro, comandante del genio militare, cui il 7 ottobre, sulla cima del Grappa, Cadorna disse: “Questa posizione deve essere resa imprendibile da tutte le direzioni; se dovesse succedere qualche malaugurata disgrazia lassù (Tolmino) è qui che verrò a piantarmi con l’esercito”.

Le precauzioni del generale

Fin dal 1916 Cadorna aveva fatto fortificare l’allineamento Piave – Monte Grappa come linea difensiva: strade, teleferiche, appostamenti per l’artiglieria, reticolati, mitragliatrici incavernate, ben due chilometri di caposaldo sulle vette del Grappa e sui monti vicini.

Cadorna potenziò le difese in pianura con campi trincerati e predispose le demolizioni di argini che avrebbero allagato le campagne verso Venezia. Si trattò, nel complesso, di un programma grandioso di fortificazione senza il quale non sarebbe stato possibile occupare il Grappa e bloccare l’avanzata nemica.

Questo fu riconosciuto anche dalla Commissione d’Inchiesta.

Quanto al dramma delle popolazioni friulane, che furono vessate dall’invasione austro-tedesca, questo si deve imputare alla politica: Cadorna aveva posto ai ministri il problema di preparare lo sgombero dei civili, il Presidente del Consiglio Boselli definì l’operazione impraticabile, aggiungendo che non era il caso che le popolazioni ne venissero a conoscenza.

La ritirata e la battaglia d’arresto

Cadorna aveva anche elaborato accuratissimi piani di ritirata verso il Piave con gli itinerari da seguire per tutte le armate, e seppe reagire con freddezza allo sfondamento nemico emanando il suo piano b: il ripiegamento fu un successo e, se le residue forze della 2ª Armata ripiegarono in completo disordine, la 3ª e 4ª Armata si mantennero salde, arginarono con le retroguardie l’avanzata nemica e riuscirono a schierarsi sulla linea Grappa-Piave.

Nella notte fra il 2 e il 3 novembre gli austriaci, dopo furiosi combattimenti, riuscirono a passare sul ponte ferroviario di Cornino sul Tagliamento e si spinsero verso sud per penetrare nel nostro dispositivo difensivo.

Il Generale Cadorna vista la critica situazione all’alba del 4 novembre diede l’ordine generale di ritirata al Piave. E sul Piave iniziò la prima grande battaglia per opporsi all’invasore.

Lo schieramento dell’Esercito sul Piave era molto più razionale e più solido e la nostra situazione sia dal punto di vista strategico che tattico, era più sicura rispetto a quella sull’Isonzo.

Nonostante il disastro subito, l’esercito ed il Paese ritrovarono la forza e la volontà di resistere e di combattere sul Piave con grande coraggio e alto senso di responsabilità.

Il Piave divenne il fulcro e il simbolo della volontà di riscossa di tutto il popolo italiano. In quella gravissima situazione, affluirono in trincea i giovanissimi ragazzi della “classe 1899”. Quegli eroici ragazzi con coraggio e tenacia tennero testa al nemico sino all’estremo sacrificio.

La cronaca militare dell’epoca così li descriveva nell’ordine del giorno firmato dal generale Armando Diaz il 18 novembre 1917: “I giovani soldati della classe 1899 hanno avuto il battesimo del fuoco. Il loro contegno è stato magnifico”.

E aggiungeva, immortalandoli per sempre: “Li ho visti i ragazzi del ’99. Andavano in prima linea cantando. Li ho visti tornare in esigua schiera. Cantavano ancora”.

La letteratura ha raccontato, con la penna di Gabriele d’Annunzio, il passaggio tremendo di un’intera generazione di adolescenti dalla famiglia alla trincea, queste le sue parole: “La madre vi ravvivava i capelli, accendeva la lampada dei vostri studi, rimboccava il lenzuolo dei vostri riposi, eravate ieri fanciulli e ci apparite oggi così grandi!”.

Quei grandi fanciulli erano nati l’ultimo anno dell’Ottocento: da qui il loro nome e cognome, “I ragazzi del ‘99”. Fu l’ultima leva di 265 mila italiani chiamati a “resistere, resistere, resistere!” sul fiume Piave, come esortava Vittorio Emanuele Orlando, l’allora presidente del Consiglio.

Sono questi giovani di diciott’anni, a volte non compiuti, che hanno contribuito in modo decisivo “alla Vittoria”, come si diceva, e all’indipendenza dell’Italia il 4 novembre 1918.

Spesso a costo della vita, perché decine di migliaia di loro non sono più tornati dal fronte del Nord-est.

Un dato certo non esiste, in un conflitto che per l’Italia ha significato seicentomila morti e quasi un milione di feriti, di cui la metà mutilati.

Il 9 novembre, il giorno in cui Cadorna veniva sostituito con Diaz, cominciava la seconda parte della battaglia: la riscossa italiana era stata preparata in largo anticipo e condotta in buona parte da Cadorna, anche se gli allori li raccolse il generale Diaz.

Atti di eroismo

Caporetto non fu solo disastrosa ritirata e arresto in massa di intere divisioni.

Sulle montagne e davanti ai ponti del Tagliamento numerosi furono gli episodi eroici dei nostri soldati che si sacrificarono sul posto per consentire il ripiegamento del grosso delle armate italiane e per arginare le incalzanti avanguardie nemiche tese all’occupazione dei ponti stradali e ferroviari.

Tra le azioni eroiche dei soldati italiani vanno ricordati gli atti di valore più significativi compiuti dai reparti di ogni arma e specialità durante quelle drammatiche giornate.

Eroico fu il comportamento del Battaglione Alpini Val d’Adige nella difesa di Monte Ieza nella zona di Tolmino, e dei valorosi fanti della Brigata Potenza in difesa di Montemaggiore nell’alto Tagliamento e il generoso ed eroico impegno degli alpini e dei bersaglieri che sul Costone di Pleca, nell’alto Isonzo che per 36 ore fermarono l’avanzata di una Brigata austriaca da montagna.

E ancora il mattino del 28 ottobre la 2a Divisione di Cavalleria sul fiume Torre, fra Godia e Udine, resisteva eroicamente per agevolare la ritirata della 3a Armata e i resti della 2a Armata. E ancora il Reggimento Cavalleggeri di “Saluzzo” combatté valorosamente a Beivars e a San Gottardo, a est di Udine, perdendo più della metà della sua forza.

Il 29 i Reggimenti Lancieri “Aosta” e “Mantova” fermarono le avanguardie nemiche a Fagagna, mentre gli Squadroni di Cavalleria “Roma” e “Monferrato” arrestarono gli austro – ungarici a Pasian Schiavonesco, nei pressi di Udine.

Leggendaria l’eroica resistenza dei Reggimenti “Genova Cavalleria” e “Lancieri di Novara” della 2a Brigata di Cavalleria agli ordini del generale Giorgio Emo Capodilista e di reparti della Brigata “Bergamo” a Pozzuolo del Friuli che si sacrificarono per proteggere il ripiegamento della 3a Armata.

Così come la generosa resistenza dei Granatieri di Sardegna a Lestizza, importante snodo viario e l’accanita lotta della Brigata “Bologna” schierata sul Monte di Ragogna a difesa del ponte di Pinzano sul Tagliamento: per tre giorni resistette coraggiosamente agli assalti furibondi dei tedeschi che volevano conquistare il ponte di Pinzano.

Il 1° novembre a San Daniele del Friuli il Gen. Otto von Below concesse ai resti della Brigata Bologna l’onore delle armi.

“Di molti di questi eroi immolatisi per la Patria” affermò Cesco Tomaselli, ufficiale degli alpini che visse sulla sua pelle la ritirata con il Battaglione Belluno “non si saprà il nome, non si conosceranno mai le gesta: segnalati ai comandi superiori con l’equivoco termine di dispersi, essi sono i più ignoti fra gli ignoti, perché nessuno è tornato di chi li vide cadere, nessuno può riscattare le loro memorie e solo la madre, che sa di averli educati alla legge del dovere, coltiva nel suo dolore l’orgoglio di pensarli non indegni di quella uniforme che essi onorarono cadendo”.

Parole forse retoriche per i giorni nostri, ma danno il senso dell’eroismo di questi giovani scarificatisi per l’onore d’Italia

La battaglia d’arresto

La battaglia d’arresto si sviluppò in due fasi: dal 10 al 26 novembre e dal 4 al 30 dicembre.

Fu una battaglia dura cruenta superata e vinta grazie all’alto spirito delle nostre valorose truppe. Una durissima, sanguinosa battaglia combattuta senza l’aiuto dei nostri Alleati che erano dislocati nei pressi Mantova, Verona e Lago di Garda in attesa che fosse raggiunta una situazione che garantisse la loro sicurezza.

I nostri soldati presero coscienza della gravità della situazione e si sacrificarono sul posto per arrestare l’invasore. “Tutti eroi! O il Piave o tutti accoppati”, quella frase scritta da un umile soldato ignoto su una casetta diroccata era il testamento di tutti i soldati aggrappati sul Piave. Il sangue versato da questi valorosi eroi salvò l’esistenza e l’onore della Patria.

E fu cosi che l’offensiva austro – tedesca terminò alla fine di dicembre, oltre non le era stato possibile avanzare in virtù della forza di volontà e della tenacia dei nostri valorosi soldati.

Sul Monte Grappa i nostri fieri avversari si trovarono di fronte un nemico diverso da quello incontrato a Caporetto, un avversario che nel giro di pochi giorni aveva cambiato volto e spirito.

Nella prima fase gli Austro-Ungarici attaccarono lungo il Piave e il 12 novembre riuscirono a penetrare nell’ansa di Zenson, ma non poterono avanzare oltre. Il 16 novembre passarono il fiume anche a Fagaré, ma, contrattaccati, ritornarono indietro.

Nel basso Piave riuscirono a far arretrare la linea difensiva a sud di Musile ma nonostante questo successo locale, l’offensiva lungo il Piave fallì e non fu più rinnovata.

Durissima fu la battaglia sull’Altipiano dei Sette Comuni e sul Grappa, dal 12 novembre in poi.

Sull’Altipiano un estremo tentativo di sfondare, effettuato il 22 novembre alla presenza dell’imperatore Carlo, fu nettamente respinto.

Sul Grappa divisioni austro-ungariche e tedesche della 14a armata reiterarono per più giorni violenti attacchi: esse riuscirono soltanto ad impadronirsi, dopo strenua lotta, di alcune posizioni avanzate e il 26 novembre il Comando Supremo austro-ungarico ordinò la sospensione dell’offensiva.

Il 14 dicembre 1’11a Armata austro-ungarica dette inizio alla seconda fase attaccando, con 43 battaglioni e 500 cannoni.

Dopo iniziali limitati successi l’ultimo attacco, sferrato il 19 dicembre, si infranse contro le difese italiane, rese insuperabili dal valore dei combattenti.

Un ultimo sussulto offensivo si ebbe sull’Altipiano, dove si svolse la “battaglia di Natale”. Il 25 dicembre il III Corpo d’armata austro-ungarico attaccò con 33 battaglioni e 560 cannoni il XXII corpo italiano, che disponeva di 24 battaglioni e 200 cannoni.

La dura battaglia si concluse col confessato disappunto degli Austro-Tedeschi e con i loro primi insuccessi.

La lezione militare

La situazione, dopo il ripiegamento sul Piave era del tutto cambiata e diede modo al successore di Cadorna, il generale Diaz, di prendere ottimi provvedimenti.

Uno degli ammaestramenti ricevuti fu quello di migliorare l’efficienza del servizio informazioni. Diaz poté dare respiro alle proprie unità, rimanendo sulla difensiva fino a Vittorio Veneto.

Non attenuò i rigidi criteri contro disertori e renitenti, ma ebbe modo di risollevare il morale dell’Esercito, tramite propaganda, razioni migliori, licenze, premi e turni più leggeri in prima linea.

Migliorò l’artiglieria e l’addestramento degli ufficiali, per avvicinarli al livello tedesco.

Occorre tener presente un dato fondamentale: Diaz si trovò a gestire un fronte ridotto di un terzo (240 chilometri in meno) e quindi ebbe la possibilità di mettere in pratica i provvedimenti che Cadorna non poteva materialmente attuare perché la sua linea era distesa lungo 650 chilometri.

Il governo, infine, che prima aveva ostacolato Cadorna in molte situazioni, intimorito dalla sconfitta di Caporetto aveva finalmente smesso di considerare la guerra come una cosa che non lo riguardava e appoggiò Diaz molto più di quanto non avesse fatto con il suo predecessore.

Il verdetto della Commissione d’Inchiesta

La Commissione istituita dopo Caporetto era nata già condizionata dal Governo e non è difficile capire perché: l’ex Ministero dell’Interno, Orlando, era diventato Presidente del Consiglio; l’ex ministro della Guerra Giardino era divenuto vicecomandante supremo insieme con uno dei corresponsabili della sconfitta, Badoglio.

Tredici pagine di atti dedicati alle gravi responsabilità di Badoglio furono fatte sparire. Questi tre personaggi dovevano essere salvati a tutti i costi e le teste che caddero furono, piuttosto, quelle di Cadorna e dei generali Porro, Capello e Cavaciocchi che furono messi forzatamente a riposo.

Altri furono “messi a disposizione” e il solo generale Brusati fu riabilitato. Cadorna fu praticamente privato della pensione, ma gli fu riconosciuto il merito di “aver ben guidato l’esercito nel difficilissimo ripiegamento dall’Isonzo al Piave”.

I socialisti di allora usarono il verdetto per attaccare l’Esercito, strumento dello “stato borghese”, ma non fecero nulla per proporre una riforma in senso democratico dello strumento militare.

Il problema storiografico

Del resto, gli attacchi a Cadorna erano cominciati subito dopo Caporetto e si acuirono, specie sulla stampa, dopo la pubblicazione degli atti della Commissione d’inchiesta.

Tuttavia, Cadorna, fu del tutto riabilitato e nel 1924, fu nominato Maresciallo d’Italia insieme con Diaz ma non aderì mai al fascismo.

Ma Cadorna resta pur sempre un comodo capro espiatorio e da allora, periodicamente, si susseguono attacchi contro di lui e ancor oggi sopravvive una visione ideologizzata di Cadorna e Caporetto indicando nel primo l’origine di tutti i disastri.

La vittoria austro – tedesca dell’ottobre del 1917 rappresentò un grande successo tattico, ma si dimostrò un insuccesso strategico, poiché quella battaglia non riuscì ad annientare l’esercito italiano che dopo quella sconfitta, insieme al popolo, sul Piave reagì vigorosamente per combattere l’ultima battaglia del Risorgimento.

Ma non furono solo i soldati a resistere. Cadorna, per quanto discutibile sotto molti punti, aveva già fatto apprestare strade di comunicazione sul Grappa fin da settembre e aveva studiato la linea difensiva dove arroccarsi in caso di disastro sull’Isonzo.

Fu la sua preveggenza a salvare l’Italia ma, proprio in quei giorni, venne sollevato dall’incarico e sostituito da Armando Diaz, napoletano, più affabile con i politici e più attento ai bisogni dei soldati.

Quanto a re Vittorio Emanuele III ebbe la sua giornata di gloria al convegno di Peschiera l’8 novembre, quando illustrò ai comandanti inglesi e francesi le ragioni per cui l’esercito italiano avrebbe resistito sul sistema difensivo Altopiano di Asiago-Grappa-Piave e non ci sarebbero state altre ritirate.

L’uomo si era ben preparato. Fece un figurone e gli Alleati ebbero fiducia in lui come massimo rappresentante del nostro paese.

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