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Laibach: la banda rock che cantò la fine della Jugoslavia (Il Piccolo 05 mag)

di KENKA LEKOVICH

I Laibach furono forse il primo segnale, forte e chiaro, che qualcosa stava cambiando. Che in quello stato cuscinetto tra i due sacri imperi del XX secolo partoriti nel travaglio di due guerre mondiali, che aveva avuto il fegato (tirato su a burek, rakija&canti partigiani) di profanarli dichiarandosi «non allineato», da tempo si respirava aria di naftalina. E che la «petokraka», la stella rossa a cinque punte ricamata sul cuscinetto dalla nonna o la zia ex partigiana come un monogramma, marcava il territorio non della realtà del qui e ora, ma di un mito. Buono a sedare le coscienze riottose della bella anestetizzata Socijalisticka Federativna Republika Jugoslavija.

Il segnale arrivò il 26 settembre del 1980, pochi mesi dopo la morte del quasi novantenne Maresciallo Tito in una rinomata clinica di Lubiana, per autodefinizione la città meno balcanizzata del paese nonché capoluogo sloveno. E affinché il messaggio fosse ancora più inequivocabile, per scenario i Laibach non scelsero Lubiana, da cui avevano preso il nome riesumandone la versione tedesca. Bensì Trbovlje, una anonima cittadina mineraria di scarsi 18 mila abitanti che la mattina del 26 settembre si svegliò sommersa da un’onda scura più alta della sua ciminiera, centinaia di manifesti di dozzinale carta socialista su cui si alternavano, come i due poli della calamita, due immagini. La prima esibiva una grande croce nera, sulla seconda un uomo cavava gli occhi a una donna. E quella che avrebbe dovuto essere una postmoderna (ancorché discutibile, allora come oggi) provocazione mediatica, cioè l’annuncio di “Sobborghi rossi”, il primo concerto dei neonati Laibach annullato con un veto blitz dalle autorità locali, divenne l’involontaria previsione della vera catastrofe. Il cataclisma che avrebbe riscritto, al prezzo di sacrifici umani impensabili, i connotati di un intero paese dieci anni spaccati dopo. Gli stessi che avrebbero coinciso con la consacrazione dei Laibach e della Nsk, il collettivo della Neue Slowenische Kunst (Nuova arte slovena) che reclutava i pittori e i grafici di un altro gruppo di artisti della retorica del «Blut und Boden» (sangue e terra), gli Irwin. E che con la sua magia nera «retrò» in poco tempo avrebbe stregato le più oltraggiose scene delle avanguardie culturali europee, scandendo nell’altoparlante con voce metallica: «Noi siamo lo spirito nero del mondo».

Al decennio di fuochi e fiamme innescato dalla band di Trbovlje, che marciava sul palco in divise nazi e, con la benedizione delle teorie del filosofo sloveno Slavoj Žižek già esegeta heideggeriano, bombardava l’opinione pubblica con ritratti del suo leader crocifisso su una croce nera, la capitale slovena dedica in questi giorni una grande mostra antologica. “Gesamtkunst Laibach. Fundamentals 1980-1990” è il titolo dell’evento, inaugurato il 15 aprile al Centro Internazionale di arti grafiche (MGLC) nel castello di Tivoli, che assieme a due esposizioni collaterali “2010 Laibach” (nella galleria “Luwigana” di Lubiana e alla “14” di Bled) ripercorre la mitologia della rock band che «ha fatto saltare il sistema nervoso al regime jugosocialista». Una mitologia incentrata «sull’estetica fascistoide del potere e della sottomissione, della messinscena del dominio e dell’annichilazione del singolo nel collettivo», che ricalca i modelli dell’avanguardia classica degli anni Venti.

Ma chi all’epoca, come tanti giovani e meno giovani jugoslavi asfissiati dallo stato delle cose, sperava in uno scrollone culturale alle radici del sistema (e non solo nervoso) per mano dei Laibach, ben presto si sarebbe dovuto ricredere. Non c’era alcunché di sovversivo o di rivoluzionario in quella operazione, nessuna critica dinamitarda ai vecchi modelli dell’oppressione e della sottomissione.

Ripensando a questo, e all’enfasi con cui 20 anni dopo “La capitale mondiale del libro 2010” Lubiana acclama la mostra e all’esercito di adepti dei Laibach che la stanno bersagliando, qualche brivido lungo la schiena non è poi così fuori luogo. Anche se non si tratta di un brivido di piacere estatico. Semmai quello scossone di comunissima Paura viscerale, cui non più tardi dell’altro ieri Predrag Matvejevic consegnava l’ultima via di uscita da un vecchio mondo inebetito che non seduce più nessuno.

 

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