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La pagina strappata (areanazionale.it 14 nov)

di Valerio Lamorte

Ci sono faglie e rotture così profonde nel passato dell’Italia che continuano a lavorare nel presente come sintomi inconsci del carattere politico del nostro Paese. Si preferisce citare Machiavelli e il pragmatismo scientifico del “Principe”, relegando al dimenticatoio il “particolare” del Guicciardini, eppure è probabile che col “guicciardinismo” riusciremmo a interpretare meglio i caratteri peculiari dell’Italia, il suo essere “ E pluribus unum”. L’Italianità non è spiegabile con paradigmi definiti e preconfezionati, perché s’afferma molto prima dell’Italia ed è probabile che tragga la sua linfa vitale proprio dal particolare. Ci sono stati episodi amari e dolorosi, tantissime fratture, una moltitudine di passaggi e avvenimenti laceranti, che hanno rafforzato il nostro sentirci popolo, una Nazione, uno Stato.

All’irrompere di fatti che hanno posto la questione dell’unità, gli italiani hanno reagito sconfiggendo il “disagio della nazionalità”. L’Italia non è stata solo quella delle sofisticherie politiche di Cavour e Napoleone III, non è stata solo quella delle battaglie di Mazzini e Garibaldi, l’Italia è stata prima di tutto quella ancorata alla sua geografia: dalle Alpi, insuperabili confini già per Tito Livio, al Mediterraneo, punto d’approdo di popoli e culture. Ponte tra Nord e Sud, crocevia obbligato tra Est e Ovest, il nostro Paese ha sperimentato il melting pot circa 3.000 anni prima degli Stati Uniti d’America. La centralità dell’Italia ha resistito nei secoli a episodi strazianti; la Gens italica ha combattuto contro gli oppressori; ha rivendicato con forza le peculiarità che la contraddistinguevano, assicurando alla sua convulsa identità una continuità storica unica, tra l’Impero Romano e la Chiesa Romana, tra il Meridione ed il Settentrione, tra L’Oriente e l’Occidente. L’Italia ha versato molto sangue per potersi garantire un’esistenza e un’autonomia autentica; malgrado ciò, ci sono fatti enfatizzati dalla nostra storiografia e altri volontariamente oscurati in nome di un inaccettabile “diritto all’oblio”. La fuoriuscita dell’orrore delle foibe e della vicenda dei profughi istriani dal cono d’ombra nel quale le avevano confinate l’ipocrisia della storia scritta dai vincitori è stata, senza alcun dubbio, una conquista di civiltà. Roberto Menia, che di quella battaglia è stato tra i principali protagonisti, ma anche Gianfranco Fini e tutta Alleanza Nazionale non hanno fatto un’operazione di revisionismo o di revanscismo, ma si sono strenuamente battuti affinché la verità emergesse, una semplice operazione di verità, che ha in parte risarcito quei caduti e quegli esuli dell’estremo oltraggio dell’oblio, della rimozione, della cancellazione. Il sacrificio di quegli italiani è la testimonianza emblematica di una memoria storica troppo spesso subordinata all’interesse nazionale. La riscoperta della triste storia degli esuli del confine Nord-orientale non è servita soltanto a riportare all’onore del mondo un retaggio di sangue e di sofferenza del nostro popolo, ma anche e soprattutto a dare a tutti gli italiani una visione più consapevole e completa della nostra storia, finalmente liberata dal fumetto delle idolatrie di fazione.

Quel passaggio storico ha consentito all’Italia di affermare ancora di più il suo carattere di comunità nazionale. Il sacrificio degli oltre 350 mila italiani dell’Istria, di Fiume e della Dalmazia, che furono costretti a lasciare le loro terre, la loro Patria, obbligati a violentare la loro nazionalità e costretti a trovare una giustificazione da dare ai loro figli, violentemente strappati al loro Paese per salvarsi dalle foibe e dal terrore comunista non è stato vano. E’ in quel sacrificio, in quella storia dilaniata, in quei diritti negati, in quell’aberrazione dei diritti umani che risiede uno tra gli aspetti fondamentali della nostra coscienza collettiva, della Patria che “si fa” italiana. La discrezione con cui gli esuli istriani hanno vissuto il loro dramma e sopportato le loro ferite brucianti rappresenta un altissimo esempio per tutta la Nazione e oggi dovrebbe fungere da monito per chi, ottusamente e balordamente, enfatizza le divisioni territoriali, facendo leva su un sentimento scissionistico, derivante unicamente da una becera propaganda. A trentacinque anni da quel tristemente famoso Trattato di Osimo ci sembra doveroso ripercorrere, anche se brevemente, quegli eventi, perché la disabitudine alla storia e la corriva tendenza a trasformarla in una sorta di emporio self-service, dove ognuno acquista il ricordo che più gli aggrada, rischiano di essere non un omaggio, ma l’ultimo insulto per chi in quelle vicende ha lasciato la vita o i beni. E presenta l’aggravante di renderci ciechi e sordi di fronte al presente ed al futuro. La “questione triestina” si apre al termine della seconda guerra mondiale, allorché Churchill, dopo la firma dell’accordo di Belgrado del 9 novembre 1945, ottenne la smobilitazione dell’Armata Popolare di Liberazione della Jugoslavia e il passaggio della città di Trieste ad un governo militare alleato (AMG). Forse pochi ricordano che il 2 giugno del 1946, quando gli italiani affermavano il proprio diritto ad esprimersi sulle sorti politiche  della Nazione, i triestini vivevano sotto le barbariche oppressioni dell’esercito jugoslavo e venivano così esclusi dal referendum. Mentre alcuni italiani decidevano di essere una Repubblica e si incamminavano sulla via della ricostruzione, altri italiani abbandonavano le loro terre, le loro attività, i loro morti, pur continuando a sentirsi italiani. Il diktat di Parigi del 1947 legittimò la “pulizia etnica” degli italiani del confine orientale. Si ignorò la divisione mondiale in blocchi e si sottovalutarono le ragioni di una parte di italiani.

Il trattato che ridefinì i confini territoriali, messi in subbuglio dalla furia della seconda guerra mondiale, cedette alla Jugoslavia Zara, Fiume, gran parte dell’Istria e configurò Trieste come TLT (Territorio Libero di Trieste) affidandola alla tutela dell’ONU. La divisione della città in zona A e zona B, gestite rispettivamente dal governo militare alleato e dall’amministrazione jugoslava, favorì la conflagrazione di disordini e proteste. I moti del 5 e 6 novembre del 1953 lasciarono sulle strade sei caduti che, cinquant’anni dopo, ricevettero dal presidente Ciampi la Medaglia d’Oro al Valor Civile con la seguente motivazione: “Animati da spirito patriottico, partecipavano a manifestazioni per il ricongiungimento di Trieste al territorio nazionale. Nobili esempi di virtù civiche e amor patrio”. Con il Memorandum d’Intesa del 5 ottobre 1954, privo del valore di trattato internazionale e dotato di mera natura pratico-amministrativa, si prese unicamente atto della ormai insostenibile situazione, senza cercare una soluzione effettiva di quel contenzioso che lacerava, da anni, una parte di italiani. Col Memorandum Tito accettò il passaggio della zona A all’Italia in cambio del riconoscimento dell’amministrazione jugoslava della zona B, nei dispositivi erano, inoltre, previste rettifiche territoriali a favore della Jugoslavia, mentre all’Italia venne “concessa” Trieste. Quest’atto segnò un’orribile pagina per la storia nazionale. Fu la spinta finale perché Capodistria, Isola, Pirano, Buie, Umago e Cittanova vedessero trasformare i propri cittadini in esuli in Italia, così come già era accaduto per i fratelli di Zara, di Fiume, di Pola e del resto dell’Istria. Oggi ricorre l’anniversario della firma del Trattato di Osimo, quell’atto internazionale con cui l’Italia rinunciò definitivamente alla zona B, regalando alla Jugoslavia di  Tito 629 chilometri quadrati di terra italiana. La storiografia diplomatica si è forse poco interrogata sul perché di un atto così abdicativo. L’Italia del 1975, al di là delle fratture interne, nello scacchiere internazionale era ormai una potenza rispettata, la sesta economia mondiale, mentre la sua controparte si presentava ridotta allo sbando e politicamente segnata dalla generale previsione che, alla morte dell’ormai anziano dittatore Tito, l’abulico e imperioso castello comunista sarebbe stato destinato alla crisi e, con molta probabilità, persino allo sfascio. Ma in virtù del Trattato di Osimo l’Italia accettava, placidamente, di sacrificare la propria integrità territoriale, senza che il mondo politico, salvo rare eccezioni, battesse ciglio.

 

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