di Giampaolo Pansa
Gli esuli di Quarnaro e Dalmazia in fuga dalla Jugoslavia di Tito: un massacro, ma per i compagni erano fascisti
Qualche giorno fa, una radio mi ha chiesto: «Perché le sinistre italiane non amano ricordare gli assassinati nelle foibe e l’esodo istriano, fiumano e dalmata?». Ho risposto d’istinto: «Perché hanno la coscienza sporca». Il giornalista mi rimproverò: «Dottor Pansa, lei vede comunisti dappertutto!». Gli replicai, sorridendo: «Non dappertutto, per fortuna. Ma in quella vecchia storia c’erano, stia sicuro».
Nel Giorno del Ricordo, l’altro ieri, sono state rammentate soprattutto le vittime delle foibe di Tito, quasi niente la tragedia dei trecentomila italiani costretti ad andarsene dall’Istria, dal Quarnaro e dalla Dalmazia. Nel complesso, l’esodo durò una decina d’anni. Ma ebbe un picco all’inizio del 1947, quando il Trattato di pace, imposto all’Italia dai vincitori, stabilì che le terre italiane sulla costa orientale dell’Adriatico dovevano passare alla Jugoslavia.
Perché tanta gente se ne andò? Ridotti all’osso, i motivi erano tre. Il più importante fu il terrore di morire nelle foibe com’era già accaduto a tanti altri italiani. Il secondo fu il rifiuto del comunismo come ideologia totalitaria e sistema sociale. Il terzo fu la paura speciale indotta dal nazional-comunismo di Tito e dalla decisione di soffocare con la violenza qualunque altra identità nazionale.
La prima città a svuotarsi fu Zara, isola italiana nel mare croato della Dalmazia. Era stata occupata dai partigiani di Tito il 31 ottobre 1944, quando il presidio tedesco aveva scelto di ritirarsi. La città era un cumulo di macerie. Ad averla ridotta così erano stati più di cinquanta bombardamenti aerei anglo-americani. Le incursioni le aveva sollecitate lo stato maggiore di Tito. Era riuscito a convincere gli Alleati che da Zara partivano i rifornimenti a tutte le unità tedesche dislocate nei Balcani. Non era vero. Ma le bombe caddero lo stesso. Risultato? Duemila morti su una popolazione di 20.000 persone. Molti altri zaratini vennero soppressi dai partigiani di Tito dopo l’ingresso in città. Centosettanta assassinati. Oltre duecento condanne a morte. Eseguite con fucilazioni continue, dentro il cimitero. Oppure con due sistemi barbari: la scomparsa nelle foibe e l’annegamento in mare, i polsi legati e una grossa pietra al collo.
Intere famiglie sparirono. Accadde così ai Luxardo, ai Vucossa, ai Bailo, ai Mussapi. Gli italiani di Zara iniziarono ad andarsene in quel tempo. Nel 1943 gli abitanti della città erano fra i 21.000 e il 24.000. Alla fine della guerra si ritrovarono in appena cinquemila. Poi fu la volta di Fiume, la capitale della regione quarnerina o del Quarnaro, fra l’Istria e la Dalmazia. L’Armata popolare di Tito la occupò il 3 maggio 1945, proclamando subito l’annessione del territorio alla Jugoslavia. Da quel momento l’esistenza degli italiani di Fiume risultò appesa a un filo che poteva essere reciso in qualsiasi momento dalle autorità politiche e militari comuniste.
L’esodo da Fiume conobbe due fasi. La prima iniziò subito, nella primavera 1945. Il motivo? Le violenze della polizia politica titina, l’Ozna, dirette contro tutti: fascisti, antifascisti, cattolici, liberali, compresi i fiumani che non avevano mai voluto collaborare con i tedeschi. Bastava il sospetto di essere anticomunisti, e quindi antijugoslavi, per subire l’arresto e sparire. All’arrivo dei partigiani di Tito, gli italiani di Fiume erano fra i 30 e i 35.000, gli slavi poco meno di 10.000. I nuovi poteri che imperavano in città erano il comando militare dell’Armata popolare, un’autorità senza controlli, e il Tribunale del popolo, affiancato dalle corti penali militari. Dalla fine del 1945 al 1948 vennero emesse duemila condanne ai lavori forzati per attività antipopolari. Molti dei detenuti non ritornarono più a casa. Ma il potere più temuto era quello poliziesco e segreto dell’Ozna, il Distaccamento per la difesa del popolo. A Fiume la sede dell’Ozna stava in via Roma. Un detto croato ammoniva: «Via Roma – nikad doma». Se ti portano in via Roma, non torni più a casa. In due anni e mezzo, sino al 31 dicembre 1947, l’Ozna uccise non meno di cinquecento italiani. Un altro centinaio scomparve per sempre.
Il primo esodo da Fiume cominciò subito, nel maggio 1945. Per ottenere il permesso di trasferirsi in Italia bisognava sottostare a condizioni pesanti. Il sequestro di tutte le proprietà immobiliari. La confisca dei conti correnti bancari. Chi partiva poteva portare con sé ben poca valuta: 20 mila lire per il capofamiglia, cinquemila per ogni famigliare. E non più di cinquanta chili di effetti personali ciascuno. Il secondo esodo ci fu dopo il febbraio 1947, quando Fiume cambiò nome in Rijeka e divenne una città jugoslava. Ma erano le autorità di Tito a decidere chi poteva optare per l’Italia. Furono molti i casi di famiglie divise. Nei due esodi se ne andarono in 10.000. E gli espatri continuarono. Nel 1950 risultò che più di 25.000 fiumani si erano rifugiati in Italia. Per il 45 per cento erano operai, un altro 23 per cento erano casalinghe, anziani e inabili. Ma per il Pci di allora erano tutti borghesi, fascisti, capitalisti e plutocrati carichi di soldi. Provocando le reazioni maligne che tra un istante ricorderò.
La terza città a svuotarsi fu Pola, il capoluogo dell’Istria, divenuta in serbocroato Pula. A metà del 1946 la città contava 34.000 abitanti. Di questi, ben 28.000 chiesero di poter partire. Gli esodi si moltiplicarono nel gennaio 1947 e subito dopo la firma del Trattato di pace. L’anno si era aperto sotto una forte nevicata. Le fotografie scattate allora mostrano tanti profughi che arrancano nel gelo, trascinando i poveri bagagli verso la nave che li attende. In poco tempo Pola divenne una città morta. Le abitazioni, i bar, le osterie, i negozi avevano le porte sigillate con travetti di legno. Su molte finestre chiuse erano state fissate bandiere tricolori. Fu l’esodo più massiccio. Dei 34.000 abitanti se ne andarono 30.000. Dopo Pola, fu la volta dei centri istriani minori, come Parenzo, Rovigno e Albona. Le autorità titine cercarono di frenare le partenze con soprusi e minacce. Ma non ci riuscirono. Da Pirano, un centro di settemila abitanti, il più vicino a Capodistria e a Trieste, partirono quasi tutti.
Sfuggiti al comunismo jugoslavo, gli esuli ne incontrarono un altro, non meno ostile. I militanti del Pci accolsero i profughi non come fratelli da aiutare, bensì come avversari da combattere. A Venezia, i portuali si rifiutarono di scaricare i bagagli dei “fascisti” fuggiti dal paradiso proletario del compagno Tito. Sputi e insulti per tutti, persino per chi aveva combattuto nella Resistenza jugoslava con il Battaglione “Budicin”. Il grido di benvenuto era uno solo: «Fascisti, via di qui!». Pure ad Ancona i profughi ebbero una pessima accoglienza. L’ingresso in porto del piroscafo “Toscana”, carico di settecento polesani, avvenne in un inferno di bandiere rosse. Gli esuli sbarcarono protetti dalla polizia, tra fischi, urla e insulti. La loro tradotta, diretta verso l’Italia del nord, doveva fare una sosta a Bologna per ricevere un pasto caldo preparato dalla Pontificia opera d’assistenza. Era il martedì 18 febbraio 1947, un altro giorno di freddo e di neve. Ma il sindacato dei ferrovieri annunciò che se il treno dei fascisti si fosse fermato in stazione, sarebbe stato proclamato lo sciopero generale. Il convoglio fu costretto a proseguire. E il latte caldo destinato ai bambini venne versato sui binari. A La Spezia, gli esuli furono concentrati nella caserma “Ugo Botti”, ormai in disuso. Ancora un anno dopo, l’ostilità delle sinistre era rimasta fortissima. In un comizio per le elezioni del 18 aprile 1948, un dirigente della Cgil urlò dal palco: «In Sicilia hanno il bandito Giuliano, noi qui abbiamo i banditi giuliani». Rimase isolato il caso del sindaco di Tortona, Mario Silla, uno dei protagonisti della Resistenza in quell’area. Quando lo intervistai per la mia tesi di laurea, mi spiegò: «Io non sono mai stato un sindaco comunista, ma un comunista sindaco». I suoi compagni non volevano ospitare i mille profughi destinati alla caserma “Passalacqua”. Ma Silla s’impose: «È una bestialità sostenere che sono fascisti! Sono italiani come noi. Dunque non voglio sentire opposizioni!». La diaspora dei trecentomila esuli raggiunse molte città italiane. I campi profughi furono centoventi. Anno dopo anno, le donne e gli uomini dell’esodo ritrovarono la patria, con il lavoro, l’ingegno, le capacità professionali, l’onestà. Mettiamo un tricolore alle nostre finestre in loro onore.