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Integrazione, identità e ricordi: incontro a Trieste (CDM 21 gen)

“Essere esuli oggi…e domani?”, ciclo di incontri curato da Carmen Palazzolo Delbianchi e organizzato nell’ambito delle attività dell’Associazione delle Comunità istriane, ha preso il via con la prima tavola rotonda dal titolo “L’integrazione degli esuli in Italia e altrove”, tenutasi nei giorni scorsi a Trieste. L’iniziativa, che si riallaccia alle tematiche della precedente edizione con un primo appuntamento dedicato alla propria identità e al pericolo dell’assimilazione, ha visto la partecipazione di Giorgio Ledovini e Livio Dorigo sul tema dell’integrazione in Italia, e della giornalista Viviana Facchinetti, che si è occupata principalmente della sua esperienza lavorativa a contatto con esuli residenti all’estero. La serata è stata introdotta dal presidente delle Comunità, Lorenzo Rovis, e moderata da Carmen Palazzolo, la quale ha ricordato come sia peculiare, nel mondo degli esuli, “ogni frammento di vita così diverso nel ricordo e negli effetti impressi nel carattere e nell’interpretazione dell’esistenza. Questo dovrebbe darci la volontà di rispettare la memoria di ognuno, anche se diversa dalla nostra” ha affermato, concludendo che: “Facendo questo non possiamo dimenticare che chi più ha sofferto tende a tacere”.

La prima voce ad emergere nel confronto è quella di Ledovini, che ha voluto raccontare la storia di suo padre, “un uomo che non troverete sulle enciclopedie o su internet ma che ben rappresenta quello che poteva essere l’”istriano comune”, nato agli inizi del ‘900”. La figura tratteggiata è quella di un soldato che parte per il fronte, chiamato dall’Austria. Finisce prigioniero nelle campagne russe e lì forse capisce per la prima volta cosa vuol dire “integrazione” , imparando l’idioma locale e inserendosi in una società dove la più evidente restrizione della libertà era una firma deposta su un libro delle presenze ogni 15 giorni. Arriva, dopo 5 anni, il momento di tornare in Istria, dove c’è il Ventennio fascista; segue, nel ’55, l’ esodo suo e della sua famiglia, a causa di quel Dopoguerra che ogni istriano conosce. “Da ignorante qual’era, ha sempre dubitato prima del Fascismo e poi del Comunismo” ha constatato il figlio Giorgio, che da adolescente approdò con i suoi familiari al Campo profughi di Prosecco.

Ma questa non fu per loro la destinazione definitiva. Finirono invece all’ex-campo di concentramento di Fossolo di Carpi, in Emilia, dove passarono in precedenza tre quarti degli ebrei italiani che perdettero la vita nello sterminio nazista. Il nuovo villaggio San Marco era però decisamente un’altra cosa. Si trattava infatti di “abitazioni dignitose, con più stanze e servizi. Dei piccoli appartamenti che la popolazione locale ci invidiava”. Quest’ultima, che nell’edicola del paese proponeva di base solo l’Unità come quotidiano locale e nazionale, di certo non accolse a braccia aperte che gli esuli, che pur si integrarono in quell’Italia del boom economico che proprio al Nord vedeva il suo principale sviluppo. Cosa ci riporta Ledovini da Carpi? Un’esperienza positiva, quella di un giovane alle prese con un nuovo mondo e un villaggio dove conoscere, per la prima volta, le tante differenze degli istriani, che fino a prima, nella stessa Istria, non conosceva.

A questa considerazione si aggiunge però il ricordo negativo del padre e degli altri familiari, che soffrirono di più soprattutto a causa dell’età e delle precedenti esperienze con il mondo “slavo”. Ancora diversa invece la storia di Livio Dorigo, oggi presidente del Circolo Istria ma che in gioventù fu un esule da Pola proiettato in una Roma abbastanza aliena e tutta da gestire. Anche lui non può certo dimenticare suo padre- “..un uomo che si era fatto da sé. Non un borghese nel vero senso del termine, ma uno che, nella sua città, aveva vissuto una piccola scalata sociale”. Con il cappello in testa e una “fabbrichetta” vicino casa, il capofamiglia Dorigo lasciò la sua casa di Pola con la porta aperta, lanciando le chiavi al suo interno. Un gesto esemplificativo, che si impresse facilmente nella duttile mente del giovane Livio, che, da fervente Balilla che era stato, passò rapidamente al pensiero critico e alle conseguenze dell’esodo. Lo ritroviamo nella capitale, al Liceo Giulio Cesare, con il netto intento di non apparire per sempre un povero profugo. La volontà di riscatto lo portò allo studio e ad una solida professionalità nel campo della zootecnia in età adulta. Ma anche qui troviamo che il padre, appena quarantenne, non ce la fece ad inserirsi nella nuova società romana, così diversa e quasi ostile, che sulle prime gli garantì il solo mestiere di garzone. In famiglia l’assimilazione ad un ambiente così diverso sembra non sia mai avvenuta. Livio Dorigo ha infatti affermato “di aver cercato fin da subito un rifugio nel dialetto, che mi consentì gradualmente un recupero dell’identità. Sono convinto ancora oggi che se si ha l’identità ben chiara, non si ha paura di nessuno- ha concluso, sottolineando il ruolo positivo nelle associazioni nel mantenere vivo questo processo e quello invece negativo nella politica nell’affossarlo su altri livelli. Il presidente del Circolo Istria ha sigillato il suo racconto con un aneddoto: “Per far conoscere Pola ai miei nipoti ho prenotato una stanza d’albergo in città per una settimana. Al termine della vacanza, mia nipote mi ha chiesto: Nonno, perché sei andato via da questo posto così bello?” Perché pioveva, ho risposto. La sofferenza dell’esodo è solo mia e non voglio che influenzi negativamente la loro esperienza”. Un modo senza dubbio efficace per volgere al futuro un territorio dalla storia onnipresente. A

ncora diverso, ma intimamente in contatto con la memoria di tanti esuli, l’intervento di Viviana Facchinetti, autrice di alcuni lavori editoriali sul tema. La giornalista ha conosciuto diversi canadesi, che arrivarono dai campi istriani alle clamorose distese di pomodori e tabacco di un nuovo mondo. Un mondo da arare, con la compagnia dei propri figli che attendevano pazientemente “da scuro a scuro” il termine di una lunga giornata di lavoro. “Si viveva di quanto si produceva, a cottimo, nella sola estate – ha raccontato Facchinetti, elogiando l’emigrazione silenziosa e operosa di questi italiani all’estero. La stessa ha tratteggiato anche dei buffi aneddoti linguistici. L’”italiese “dell’esule, ormai impadronitosi dell’inglese standard, portava a parlare di forniture (furniture-mobili), markete (market-mercati), basamenti (basements-cantine) e quant’altro, con alcuni incursioni drammatiche di italiese insegnato da emigrati dell’Italia meridionale, arrivati prima di loro. Tutto sommato un quadro allegro, quello internazionale, di gente che ha superato il passato di petto, insegnando che il futuro è negli occhi di chi lo vuol vedere.

Emanuela Masseria

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